Yemen, la via dell’incenso
Lo Yemen , ufficialmente Repubblica Unita dello Yemen, è l’unico regime repubblicano della Penisola araba. Lo Yemen del Nord è indipendente dal 1919, lo Yemen del Sud dal 1967; si sono unificati nel 1990. La capitale è Sanaa. Situato nella regione del Medio Oriente, nel sud della penisola araba, confina a nord con l’Arabia Saudita e a est con l’Oman. Le sue coste sono bagnate a ovest dal Mar Rosso e a sud dal Golfo di Aden (Oceano Indiano). Comprende l’arcipelago di Socotra, composto da quattro isole nell’Oceano Indiano, e gli arcipelaghi di Perim e Kamaran nel Mar Rosso. Ha una superficie di 527.970 km2, suddivisa in quattro regioni principali: le pianure costiere ad occidente, gli altipiani occidentali, quelli centrali e il deserto del Rub’ al-Khali ad est. Sulla costa le estati sono molto calde ed umide, temperate sugli altopiani. I periodi migliori per visitare gli altopiani sono marzo-aprile e ottobre-novembre. Sulle coste il periodo più adatto va da dicembre a febbraio. La popolazione totale conta (stima del 2005) 20.975.000 abitanti, con una densità di 39 ab./km2. La lingua ufficiale è l’arabo, e l’inglese è abbastanza diffuso. Paese ricco di storia e di cultura, uno dei più antichi centri di civilizzazione del mondo fin dal secondo millennio a.C., lo Yemen invita il viaggiatore alla scoperta delle proprie meraviglie.
Ancora oggi, un viaggio in questa stupefacente terra significa vivere avventure che stanno tra passato e presente: lo Yemen “irrompe nel terzo millennio saltando completamente il secondo”. E’ rimasto così come un tempo, l’Arabia Felix della regina di Saba. Il rischio di essere rapiti da qualche tribù di guerriglieri è remoto; assai più facile è essere rapiti, sì, ma dall’incanto di questo straordinario paese.
Appena usciti dall’aeroporto si entra subito in contatto con la realtà yemenita ad iniziare dall’abbigliamento della gente. Gli uomini indossano una tunica bianca, chiamata kandoura, o più semplicemente una gonna, la giacca e in testa, come una specie di turbante, ma spesso soltanto appoggiato sulle spalle, portano il ghutra, il fazzoletto bianco a quadretti neri o rossi. Infine, alla vita hanno una cintura sfarzosamente ricamata che serve ad infilare la jambiya, un pugnale ricurvo che tutti gli yemeniti hanno sempre addosso. L’abaya, il mantello nero, è l’unico vestiario delle donne, che hanno sguardi fieri, quando è possibile vederli, poiché non sempre gli occhi sono scoperti. Molte, infatti, portano il burqa, un pezzo di stoffa che copre interamente il volto.
Stanchi per la notte passata in aereo, andiamo a riposare, ma dalla camera dell’albergo si gode un vero e proprio belvedere su Old Sana’a. La luce tenue dei primi raggi del sole colpisce i palazzi più alti della città vecchia. Sembra di ammirare un quadro: l’albergo è la galleria, i contorni della finestra sono la cornice del quadro e Old Sana’a è il soggetto. Immortalarla un po’ di volte è d’obbligo. Siamo desiderosi di immergerci nel Suq al-Mith, il mercato costituito da quaranta piccoli suq. Percorriamo Az-Zubayri Street, attraversiamo il ponte sul fiume Sa’ila, completamente prosciugato, e ci troviamo ai piedi di imponenti mura che costeggiamo fino a Bab el Yemen. Qui, seduti accanto alla loro merce, non troppo distanti l’uno dall’altro, incontriamo degli strani ambulanti. Si tratta di una decina di venditori di miswak, bastoncini da masticare, che metaforicamente possiamo definire gli spazzolini da denti yemeniti. Pare contengono fluoro e agenti antibatterici, oltre ad essenze rinfrescanti.
Ci fermiamo in un ufficio di cambio, dove perdiamo parecchio tempo a contare l’enorme quantità di biglietti da cento rials scambiati per un’esigua cifra di dollari. Superata la porta di Bab el Yemen abbiamo l’immediata conferma che la realtà supera di molto le attese: Old Sana’a è una città senza uguali nel mondo. Oltre la porta, all’interno delle mura, c’è lo Yemen di un tempo! Si respira un’atmosfera esotica per via dell’impressionante brulichio di persone, fiabesca per via dei caratteristici palazzi color argilla con fantasiose decorazioni bianche. In questo labirinto di viuzze è facile disorientarsi ma impossibile perdersi, qualsiasi direzione si prenda, andando sempre dritto, prima o poi, si uscirà da Old Sana’a. L’aria è gravida di odori a seconda del suq in cui ci si trova, delle pelli, dell’argento, della verdura, dei cereali, della ceramica, dei vestiti, delle spezie, del qat. In quest’ultimo ramoscelli di foglie di qat sono sparsi ovunque. Le foglie di quest’albero sono ricche di efedrina, che è uno stimolante, ragione per cui il qat è la droga nazionale che gli yemeniti sono soliti masticare per ore e ore.
Nei negozietti, di due metri per tre al massimo, i venditori, circondati dalla mercanzia, sono più intenti, a masticare qat che non a vendere. Prima di riuscire dalle mura chiediamo ad un giovane, che nel frattempo aveva incominciato a seguirci per offrirsi come guida, che cosa fossero quelle specie di sassi giallo biancastri, che vedevamo vendere un po’ ovunque. Non si trattava di pietre, ma di una resina aromatica e precisamente la famosa mirra. A notte fonda, poi, un frastuono rimbomba sulla città. A diffondere questo baccano sono i muezzin che cantano l’azzan (la chiamata alla preghiera) che si dirama dall’alto dei minareti, attraverso gli altoparlanti.
Subito fuori Sana’a un posto di blocco arresta la nostra partenza per Marib. Sono le sei e siamo costretti ad aspettare sul desolato piazzale fino alle nove, l’orario stabilito dalle autorità per scortare i turisti, ogni giorno, da Sana’a a Marib. Dei bambini, che provengono da non si sa dove, visto che tutt’intorno non c’è niente, alleviano l’attesa semplicemente con la loro presenza. Alle nove in punto si riparte, insieme a tre francesi. La scorta è composta da due camionette, entrambe piene di militari. Il numero di uomini impiegato per scortare pochi turisti è significativo. Siamo infatti in procinto di attraversare una zona ad accesso limitato: qui il rischio rapimenti è alto.
Il paesaggio man mano che ci si allontana da Sana’a diventa sempre più arido e brullo. La scarsa vegetazione contribuisce a rendere la zona desolata. La strada in ottime condizioni s’innalza fino al passo di Naqil al Farda (2.000 mt.) da dove si vede estendersi, a perdita d’occhio, il deserto, dove una volta fioriva l’Arabia Felix della regina di Saba. Nuvole di polvere, sollevate dal vento, accolgono il nostro arrivo in questo avamposto del deserto. Per le strade non vediamo nessuna donna, ma soltanto uomini, per di più armati di kalashnikov. Nello Yemen esibire un’arma è, da parte di un uomo, l’affermazione della propria virilità. S’impara presto a dare alle armi la giusta dimensione, ma nel vederle addosso a uomini e ragazzini indistintamente avverto un non so che d’inquietante.
A Marib le uniche cose da visitare sono le rovine del “tempio del Sole” e quelle del “tempio della Luna”. Del primo non restano che otto monumentali pilastri che emergono a fatica dalla sabbia. Del secondo sei colonne si ergono su di una piattaforma di pietre. Si dice rappresentino i cinque pilastri della fede islamica mentre il sesto, spezzato, rappresenta l’indiscusso sesto principio dell’Arkan, ossia quello della Jihad: la guerra islamica. Il profilarsi della sagoma di Old Marib, da lontano, assomiglia a quella di un castello di sabbia. All’interno delle mura, si scopre come le case stiano inesorabilmente crollando. Ancor di più fa pensare la gente, per la povertà, la sporcizia, le malattie. Perché loro e non noi? E’ triste per noi turisti venire fin qui ad immortalare tale miseria ed arretratezza, scandalizzarsi per la mancanza di ogni bene di prima necessità e meravigliarsi per l’ingenua gioia di vivere e per la gentilezza. Con un beduino, figura indispensabile per attraversare il deserto, ci s’accorda sul prezzo, l’orario di partenza e il punto di ritrovo per l’indomani.
All’alba si lascia Marib e si prosegue fino a Safir, per una bella strada asfaltata, di tanto in tanto invasa dalla sabbia che orla la carreggiata. Poco dopo si materializzano all’orizzonte numerosi pozzi di petrolio, all’altezza dei quali si abbandona la strada e si punta dritti nel deserto. Sulla pista si sgonfiano gli pneumatici, per rendere la guida più facile e non correre il rischio di insabbiarsi. Si viaggia ad un’andatura di circa 80km/h. Le deserte lande del Sab’Atayn fanno parte del deserto ar-Ruba’ al-Khali, letteralmente “il quartiere vuoto”, nome azzeccato per una pianura sabbiosa senza fine apparente. Il Sab’Atayn è completamente privo di dune scultoree e seducenti che contraddistinguono altri deserti ad eccezione di una lingua di duna a metà percorso. Dall’alto della duna, penso allo strano potere di seduzione dei deserti: spazi solitari e irraggiungibili, di quiete e di solitudine.
Quaranta minuti dopo siamo di nuovo in movimento. S’incrociano piste segnate da altre auto che corrono verso il nulla. Pur sprovvisto di gps, il beduino le taglia senza alcuna esitazione. Quando l’orizzonte non è più piatto, ma limitato dalle falesie del Wadi Hadhramaut significa che l’attraversata è terminata. Dopo più di 200 km di sabbia si ritrova l’asfalto. Salutato il beduino si punta su Al Ghorfah, base d’appoggio per visitare: Shibam, Seyun e Tarim. Il paesaggio cambia e la fertilissima valle dell’Hadhramaut è una comparsa del tutto inattesa dopo le desolazioni del Sab’Atayn. Lungo il tragitto per Tarim strane presenze s’aggirano per i campi. Si tratta delle contadine dell’Hadhramaut, donne vestite completamente di nero, da capo ai piedi, con curiosi cappelli di paglia in testa, alti ed appuntiti. Tarim è famosa per gli splendidi edifici in stile barocco giavanese, la cui particolarità è quella di essere costruiti interamente con mattoni di fango. A Seyun, sotto il sole del mezzogiorno, il palazzo del sultano intonacato di bianco com’è, diventa accecante ai riflessi del sole. Infine, Shibam, la Manhattan del deserto, una città straordinaria per via dei suoi grattacieli d’argilla, giustamente dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Girando a piedi tra gli stretti vicoli nei quali il sole non riesce a far capolino neppure quando splende alto in cielo ci s’imbatte in ogni sorta d’animale: gatti, cani, capre e galline che circolano indisturbati, e ci si sente osservati dagli occhi indiscreti di curiosi bambini che vi spiano attraverso le grate di legno delle abitazioni. Usciti dalle mura della città, s’attraversa la strada e un campo di calcio quindi si sale per un sentiero ben tracciato che, in dieci minuti, porta ad un belvedere. Dall’alto i 500 edifici, stretti l’uno accanto all’altro, alti fino a 40 metri e raggruppati in un’area di appena mezzo chilometro quadrato, sono uno spettacolo indimenticabile. Si resta in silenzio, come stregati da un incantesimo, fin quando non diventa buio.
A cura di Adriano Socchi