Viaggio in Ecuador e Studio Etnobotanico
Dovevo svolgere il tirocinio universitario di fine corso e mi si prospettavano un paio di mesi di lavoro gratuito in qualche azienda dove probabilmente avrei imparato ben poco. Inoltre dovevo pensare alla tesi e all’argomento che avrei presentato. Dopo alcuni deludenti colloqui, dove mi si offriva di fare catalogazioni di ricettari erboristici al computer, o peggio, imbustare sacchettini di tisane, decisi di optare per qualcosa di più avvincente, e così, dopo svariate ricerche sulla grande rete, trovai ciò che faceva al caso mio. Ecotrackers Foundation è un’organizzazione ecuadoriana con sede a Quito (2800 metri s.l.m.), la capitale, e mi offriva la possibilità di vivere tra le comunità indigene dell’Ecuador e studiarne le piante medicinali. Ottimo tirocinio ed ottima tesi. Il tutto risultava essere anche molto economico in quanto, dopo il pagamento di una quota di iscrizione, avrei semplicemente versato 8$ al giorno alle famiglie che mi avrebbero ospitato, con tre pasti al giorno, un alloggio e le loro conoscenze.
Preso contatto con il direttore del progetto, il dottor Maximiliano Moreno (un vero pazzoide) ed ottenuta l’approvazione dall’Università, partii alla volta del Sud America. A Quito, Maximiliano mi introdusse alle varie forme di sciamanesimo, di guaritori e di credenze delle varie comunità indigene, il tutto perché poi potessi distinguere con maggior facilità i veri depositari delle conoscenze tramandate, dai numerosi ciarlatani che cercano solo un facile guadagno truffando qualche turista (e purtroppo provocandone a volte anche la morte, come accaduto per i due ragazzi italiani ritrovati dopo 6 mesi tagliati in quattro pezzi lungo il Rio Pastaza, anch’essi partiti per lo studio dello sciamanesimo e vittime di un sedicente sciamano Shuar). Dopo alcuni giorni mi raggiunse anche un amico che desiderava solo fare un viaggio in America del Sud e non aveva interessi botanici.
Una sera Maximiliano organizzò un incontro con Celso, sciamano e filosofo di Quito, che tra un discorso su Spinoza e uno su Castro, ci introdusse ai rituali andini e fissammo per il giorno dopo una dimostrazione. Non sapevo bene cosa aspettarmi da questo signore dall’età non ben definita e dalla vita strana. In gioventù era stato un fervente comunista, tanto che per il suo impegno era stato chiamato a Cuba dallo stesso lider maximo allo scopo di imparare le tecniche di guerriglia da esportare nel continente. Ben presto però la sua ammirazione per Castro, nata leggendo i giornali e i libri di partito, si affievolì sempre più fino a tramutarsi in disprezzo per quell’uomo che sì, aveva dato la libertà a molta gente, ma l’aveva anche costretta a vivere in un’eterna povertà e senza possibilità alcuna di pensarla diversamente. I disastri delle riforme agrarie e zootecniche apportate da Fidèl, sulle quali molti esperti dell’isola si erano espressi sfavorevolmente in quanto decisioni prese senza conoscere assolutamente l’argomento, fece sì che Celso decidesse di abbandonare l’isola e provare in Europa. Dopo un soggiorno in Russia ed uno a Praga, dove rimase ulteriormente ferito nel vedere gli effetti pratici del fanatismo politico, tornò in Ecuador sconfitto e demoralizzato. Fu durante una festa di indigeni Quichua che fece la conoscenza di un uomo che molti ritenevano pazzo, Marco Guerrero, e che poi sarebbe diventato il suo principale maestro. Infatti era uno sciamano andino, che gli insegnò un altro modo di vedere il mondo e ben presto Celso si riprese dalla delusione politica. Compì altri viaggi, questa volta per conoscere altri sciamani e non lider politici, partecipando alle ceromonie del peyote (Lophophora williamsii) con gli indiani statunitensi, a quelle con i funghi magici e cactus San Pedro (Trycochereus pachanoi) sempre sulle Ande, e quelli a base d’ayahuasca (varie Banisteriopsis) in Amazzonia.
La sera dell’incontro ci ritrovammo in una stanzetta dove sistemammo un tavolino e ponemmo le sedie tutt’attorno. Celso arrivò con una buona mezz’ora di ritardo, ma aveva tutto ciò che serviva: candele, tabacco, alcol e dei ramoscelli di comune artemisia. Eravamo io, il mio amico Giorgio, e un ragazzo norvegese, Andreas, che sarà poi compagno di tante altre avventure. Quello che Celso si preparava a farci era una limpia, ovvero una “purificazione” del corpo dalle energie negative tramite il potere del fuoco. Dopo aver acceso le candele, della quale ognuna rappresentava uno di noi e lo spirito dei maestri, e dopo lunghe spiegazioni sul significato di ciò che stavamo facendo e dopo aver richiamato gli spiriti dei suoi defunti insegnanti, lo sciamano cominciò a riempirsi la bocca di alcol di canna da zucchero e a spruzzarlo sulle fiammelle che subito cominciarono a crepitare. Lui osservava attentamente i movimenti di ciascuna fiamma e dopodichè s’accese una sigaretta. Il tabacco è l’elemento comune di tutti gli sciamani americani e non manca mai in una cerimonia. Il fumo che soffiava sulle candele faceva dei strani giochi con la luce soffusa della stanza e Celso cominciò a descrivere quello che leggeva su di esso, tutte cose che suonavano più come raccomandazioni per ciascuno di noi, invece che previsioni del futuro.
L’aspetto ritualistico dello sciamanesimo è pieno di divinazioni e “limpie” di vario genere, e deriva dal fatto che nel passato lo stregone aveva soprattutto la funzione di uno psicologo all’interno della tribù, che consigliava, metteva in guardia, e infondeva coraggio in tutte le persone che chiedevano il suo aiuto e che credevano in lui. Personalmente, non credendo né alla lettura delle candele né tanto meno agli oroscopi e consimili, questo non poteva influenzarmi in alcuna maniera, ma in società del passato dove a tutto veniva dato una sembianza magica, (potremmo dire che erano dei gran creduloni, con tutto rispetto), era sicuramente un modo molto efficace di cambiare i comportamenti della gente.
Una volta finito con le candele cominciò la parte più interessante e anche divertente. Mi fece spogliare, mettere un asciugamano in testa per non bruciarmi i capelli, mi spruzzò con l’alcol una volta, e la seconda si mise davanti alla bocca una candela accesa, e così presi fuoco, tra le risa incredule degli astanti. L’alcol evapora molto velocemente dando una sensazione di freddo sulla pelle, che unita al calore generato dal fuoco che brucia per pochi secondi, crea una differenza repentina di temperatura con conseguente aumento della microcircolazione sanguigna cutanea. Un po’ come farsi la sauna seguita da una doccia fredda. Forse questo aiuta il corpo a liberarsi più facilmente dalle tossine, le male energie, ed è l’unica spiegazione razionale che posso dare dell’eventuale efficacia medica di tutto ciò, al di là del fatto che sia una cosa che impressiona molto a vedersi e quindi possa avere effetti di soggezione sui partecipanti (il padroneggiare il fuoco è considerata la parte più difficile nello sciamanesimo, come ad esempio per lo shugendo giapponese, ed eleva lo status e la considerazione sociale di chi lo pratica). Dopo aver imbevuto i ramoscelli di artemisia con l’alcol ed averli accesi, cominciò a frustarmi, sulla schiena, le spalle, il petto, dando dei forti colpi di pugno su alcuni punti particolari dove si concentrano energie e tensioni. Il tutto durò una ventina di minuti nei quali mi incendiò numerose volte senza mai bruciarmi la pelle. Poi toccò la stessa sorte ai miei amici, e terminato anche con loro, Celso ci offrì un po’ d’alcol da bere, e la serata terminò così, condita da altre storie e disquisizioni su Castaneda e filosofi vari che una volta in più mi dimostrarono quanto colto fosse quest’uomo.
Santo Domingo de los Colorados è una cittadina tra le Ande e la costa, nella zona detta del “bosque nublado”. E’ chiamata “de los colorados” perché gli indigeni Tzachilas che vivono nei paraggi usano tingersi i capelli di un bel rosso acceso, ricavando il colore dai semi dell’achote (Bixa orellana). Questi indios vivono da molto tempo a stretto contatto con coloni bianchi e meticci, e la maggior parte è dotata di cellulare e televisione, qualcuno che ha lavorato all’estero si può permettere anche un’automobile. Ovviamente la modernità ha portato tanti benefici, ma anche alcuni gravi problemi, come l’alcolismo assai diffuso, l’inquinamento per mancanza di servizi di raccolta dei rifiuti e mancanza di conoscenze ecologiste, e la perdita della cultura sciamanica originaria. Alfonso Aguavil, la sorella Clemencia e le loro famiglie mi ospitarono gentilmente per due settimane, per studiare le piante medicinali e mi furono d’immenso aiuto.
Una cosa che balza all’occhio è il lavoro non del tutto riuscito, fatto dai missionari cattolici in anni di propaganda; lo sciamanesimo non è stato distrutto, ma in compenso è stato modificato a tal punto da renderlo null’altro che un’accozzaglia di superstizioni, dove ad ogni rituale si invocano santi cristiani, angeli, la Madonna. Ovviamente ciascuno ha le sue credenze e il diritto di professarle, ma fa molto strano pensare a degli sciamani cattolici, soprattutto conoscendo un minimo di storia e sapendo cosa ne pensi in proposito la Santa Sede. Solo in sud America possono verificarsi sincretismi del genere. Gli Tzachilas hanno permesso ad altre culture di modificare i loro usi millenari senza preoccuparsene molto, ma in compenso difendono ancora la loro pianta sacra, caposaldo dell’originario credo. Sto parlando dell’ayahuasca, un rampicante simile per forma apparente ad un glicine, e di cui possiedono due varietà. “Ayahuasca” è un termine generico e comune usato in America latina per indicare le Banisteriopsis, ma ogni tribù ne utilizza poi uno proprio. Gli Tzachilas chiamano Wanepi la varietà grande, mentre Nanepi la varietà nana e molto rara, che dicono dia visioni di tipo differente. Personalmente partecipai a tre cerimonie in cui bevemmo il decotto della pianta, il Nepi-Malà, il nettare degli Dei. Dopo più di tre ore di cottura, il risultato è una bevanda scura e dal gusto orribile. Preparata verso l’imbrunire, viene poi assunta alla mezzanotte a completo digiuno, pena effetti secondari come vomito e diarrea.
Lo sciamano allora prepara ogni partecipante con una “limpia”, la pulizia rituale, usando tabacco, alcol e piante profumate, e facendo in modo che tutti si rendano consapevoli di ciò a cui stanno andando incontro. I partecipanti dal canto loro sono tutte persone che hanno dei problemi che vogliono risolvere, spesso cose molto terrene, come problemi con una donna, d’affari o di salute. Assumendo il Nepi-Malà e aiutati dall’officiante, cercano di avere una visione più ampia e delle risposte nella loro mente che solo uno stato non alterato, ma differente di coscienza, può dare. Gli Tzachilas cominciano a bere l’ayahuasca verso gli otto anni d’età ed è fondamentale per la pratica dello sciamanesimo, tanto che essa stessa viene considerata uno sciamano incarnato, e da essa dicono trarre forza e potere. Ma anche l’aspetto strettamente medicinale della pianta è molto interessante, essendo un antibiotico e antivermifugo venduto al mercato delle erbe cittadino, dicono anche sia utile nella cura del diabete e del cancro, nonché nella disintossicazione da eroina e cocaina. Di sicuro col suo gusto uccide tutti gli abitanti indesiderati dell’intestino, come io stesso ho appurato a beneficio della mia salute.
Quando la presi la prima volta, ero l’ultimo dei partecipanti ad averla assunta, e mentre gli altri erano già fuori dalla capanna a vomitare, io ero ancora tranquillo… Alfonso mi chiese come stavo, risposi che non sentivo nulla, ma appena mi alzai in piedi sentii un forte stordimento e ubriacatura e potei solo dire: -“Arriba! Arriba!”, al chè lo sciamano rise di gusto. Avevo bevuto il NepiMalà un quarto d’ora prima e già faceva effetto. L’ayahuasca mi punì per aver digiunato solo 12 ore costringendomi al vomito e alla diarrea contemporaneamente (lo so, non è bello a leggere, ma è andata così), mentre una moltitudine di visioni ad occhi aperti e molto reali si prendevano gioco di me… ero chinato intento a liberare lo stomaco e le deiezioni appena uscite mi guardavano assumendo di volta in volta le sembianze della faccia di un uomo… poi di un nero… un bambino… un nano… e osservavo divertito pensando che forse i miei rigetti stomacali avrebbero potuto rivelarmi importanti segreti. Invece la mia attenzione fu catturata dalla presenza di un rospo che cercai di prendere barcollando, l’afferrai, e solo dopo aver tirato e tirato vidi che era un arbusto. Passato l’effetto vomito grazie a un po’ d’antidoto, ovvero acqua zuccherata, mi misi accanto al fuoco per concentrarmi su quello che m’ero proposto di pensare e su cui avevo dubbi. Intanto che filosofeggiavo nella corsia di sorpasso apertami dalla pianta sacra, sentivo un gocciolìo distante da qualche parte nella selva, perfettamente distinguibile dalla moltitudine di suoni tropicali notturni, e avevo i sensi a momenti più sviluppati ed un attimo dopo insensibili. Sentivo una gran stanchezza e voglia di starmene sdraiato tranquillo, tipico effetto dell’ayahuasca.
Un’altra volta vidi le mie scarpe volteggiarmi vicino e più tardi uno splendido fiore bianco, fatto di disegni geometrici perfetti, sbocciare dentro la mia testa. Tutte le visioni hanno un significato preciso secondo gli sciamani, ma ero sempre consapevole del fatto che fossero solo frutti della mia mente e null’altro, così non mi preocuppai delle brutte cose viste e mi rallegrai delle belle, cercando solo di essere spettatore dell’opera offertami dai teatranti, il mio cervello e la pianta. La mattina dopo avevo la sensazione di essere tornato da un lungo viaggio ed ero molto affaticato… un bagno alla sorgente, un brodo caldo, un po’ di amaca e mi ripresi alla grande.
Una raccomandazione che voglio fare a coloro che avranno la fortuna di visitare il sud America e vorranno bere l’ayahuasca, è di ricordarsi che prima di tutto è un farmaco e bisogna sempre stare attenti, nonostante venga usata da bambini e da anziani signori, e che è auspicabile un digiuno di 24 ore con il quale si possono eliminare gli effetti secondari ed evitare una pericolosa reazione con i cibi proteici, che provoca ipertensione, con rari, ma possibili, effetti nefasti. L’ayahuasca non è uno stupefacente, è un medicinale, di cui va fatto un uso appropriato.
Navigazione del Rio Morona tra Ecuador e Perù
Un viaggio di una decina d’ore d’autobus ci porta a Macas, cittadina della regione amazzonica Morona-Santiago. Il paese ci accoglie con un esplicativo cartello: “Macas, città centenaria”. Un po’ strano da leggere per un italiano, ma di questi cento anni loro vanno molto fieri. La struttura stradale e abitativa da “castrum” romano ricorda un accampamento coloniale, e difatti ci troviamo in quello che per decenni è stato l’avamposto prima del territorio degli indios più temuti: gli Shuar. Internazionalmente sono noti per le “tzantza”, le teste rimpicciolite dei nemici, ottenute con laboriosi processi. Ora gli atti di violenza sono molto diminuiti, ma rimangono un popolo fiero e sospettoso, con una cultura guerriera molto forte. Proprio durante il mio soggiorno verranno trovati i resti dei due sfortunati ragazzi italiani, uccisi e occultati da dei sedicenti e falsi sciamani Shuar.
Lasciamo presto Macas, e cerchiamo di dormire mentre un autobus carico di gente ci porta verso il confine con il Perù, attraverso una strada talmente accidentata che vengo continuamente sballottato come in una lavatrice. Arriviamo che è ancora buio a San Josè de Morona, un paesino coloniale di appena 30 anni, in una zona che è stata al centro del contenzioso durante la guerra tra Ecuador e Perù di 15 anni fa. Ci imbarchiamo su una chiatta e andiamo verso il confine dove ci aspettano gli altri compagni di avventura.
Una semplice pietra nella selva, colorata per metà con i colori della bandiera peruviana e per metà con quelli dell’Ecuador, divide i due paesi tra i quali ancora non scorre buon sangue. Qui saliamo su di una barca più grande e faccio conoscenza con gli altri compagni di viaggio, locali coloni che fanno una scampagnata oltre confine e pochi turisti europei, i primi dalla fine della guerra. Il confine sul fiume Morona è stato interdetto per anni alla navigazione, e difatti Ecotrackers aveva preso preventivamente contatto con i militari peruviani di stanza sul fiume, e così dopo poche ore di navigazione veniamo fermati da un avamposto militare, che ci dà alcuni soldati per scorta, o molto più probabilmente per “scroccare” un passaggio fino alla città.
Il livello del fiume è più basso del solito e la barca avanza lentamente per evitare rocce affioranti e alberi inghiottiti dai flutti, dove simpatiche testuggini si appoggiano per un bagno di sole. Veniamo catturati dai suoni della giungla, mentre ogni tanto qualche ragazzino carico di pesce fa capolino sulla riva a vedere incredulo questi estranei, e non sa se scappare o rimanere a osservare gli intrusi.
Verso l’imbrunire finalmente attracchiamo sul molo di un villaggio Shoraya. I militari scendono per primi e prendono accordi con il capo villaggio, che ci dà la possibilità di passare lì la notte. Quindi salgo la riva e mi ritrovo davanti un piazzale di terra rossa attorniato da ordinate palafitte tradizionali, circondate da una muraglia vegetale sempre ricca di versi, canti d’uccello e dell’odore della natura. Un’emozione fortissima cresce in me, finalmente ho la possibilità di conoscere direttamente quelle cose che avevo solo visto nei documentari e nei libri scientifici. Non mi aspetto di trovare chissà cosa, ma la sola vista di questi paesaggi mi riempie di gioia. Vado verso una palafitta, grandi abitazioni costruite senza usare un solo chiodo metallico e con i soli materiali del bosco, grandi abbastanza da ospitare tutto un nucleo familiare, simili per concezione d’uso alle “long house” del Borneo, che hanno un’unica stanza divisa solo da qualche telo o divisori in bambù, senza mobili e letti, dove il pavimento funge da divano, da tavolo, da soggiorno e da giaciglio.
Il dottor Max ci chiama perché la figlia del capo soffre da quasi un mese di attacchi malarici, e di questo passo milza e fegato rischiano di danneggiarsi. Servono delle pastiglie. Io e Giorgio doniamo il nostro Fansidar, un farmaco che uccide il plasmodio in poche ore, ma del quale è meglio non leggere i possibili e orribili effetti collaterali. Ormai è notte inoltrata, monto la zanzariera e mi ci sdraio sotto. Vengo assalito da invisibili acari tropicali che mi cominciano a pizzicare e a succhiare il sangue, passo tutta la notte a grattarmi e cercare una soluzione, ma oltre a quella di spellarmi vivo, non c’è niente da fare, e così le notti successive cerco di dormire sopra qualche piano ulteriormente rialzato, anche se con scarsi risultati.
La seconda notte la passiamo in un altro villaggio indigeno, molto diverso. Appena arrivati vengono tutti a guardarci come alieni, la cosa è reciproca, poi si fanno coraggio e cominciano a chiacchierare e fare domande di ogni tipo. Sono curiosissimi e molto ospitali, così ospitali che mi portano una coppa di yucca masticata e fermentata, la “chicha”, da bere in segno di benvenuto. Dopo l’ayahuasca è sicuramente la bevanda più lontana dai nostri gusti, e quindi anche la più orribile, con quel sapore acidulo con un retrogusto di vomito, ma ci si abitua presto.
Mi raccontano molti aneddoti e storie, tra le quali il primo incontro con i bianchi. Mi dicono che i loro nonni erano giovani all’epoca, e i primi militari e missionari arrivarono con delle barche. Loro non avevano la più pallida idea di chi fossero, e non capivano nulla di quello che dicevano. Seppur intimoriti, una parte della gente si fece propensa per vedere che accadeva, per capire chi fossero e cosa volessero. Un’altra parte invece aveva risolutamente deciso che, nel dubbio, era meglio staccare la testa a tutti e non porsi più il problema. Infine la paura prese il sopravvento e si rifugiarono nella foresta, ma i bianchi cominciarono a lanciare da aerei e poi da elicotteri pacchi con machete, specchi, suppellettili, e altre diavolerie che ben presto conquistarono la loro fiducia. Non è un caso se si dice che buona parte dell’America latina è stata conquistata, oltre che con spada e croce, regalando montagne di specchi, questi strani oggetti magici che ti permettono di vedere la propria faccia.
La cena è ottima, ci viene cucinata dagli indigeni stessi e consiste in yucca, riso e qualche bestia cacciata e affumicata. Le indigene Shoraya sono carine, e noto che molte portano dei bambini con sè nonostante siano appena adolescenti: fratellini o figli? Probabilmente la seconda ipotesi è la più probabile, visto che tutti sono sorpresi nel sapere che noi, più che ventenni, non siamo ancora accasati, una cosa quasi inconcepibile per loro.
Il giorno successivo dormiamo in un altro villaggio, e al quarto finalmente il rio Morona si congiunge con il rio Marañon (poi Amazonas), diventando largo molte centinaia di metri e con un traffico fluviale molto più intenso. La nostra meta è ormai vicina e per la sera possiamo dormire in veri letti e lavarci con acqua pulita invece che con quella marrone fangosa del fiume, con la quale tra l’altro abbiamo sempre cucinato. San Lorenzo è una cittadina raggiungibile solo per via fluviale, che per il suo isolamento dà subito l’idea di un luogo dove poter nascondersi in caso si sia ricercati dall’Interpol, tanto più che le uniche forze dell’ordine sono 3 vigili che controllano i pochi tuk tuk che fanno da taxi. Anche qui siamo gli unici stranieri e tutti ci si avvicinano per venderci qualcosa, chiederci l’indirizzo e-mail (internet è arrivato anche qui), dialogare.
Il sindaco e la Tv locale ci accolgono nella piazza principale e ci intervistano come fossimo delle star del cinema, e forse qualche paesano pensa veramente che lo siamo. Il mercato di San Lorenzo è uno dei tanti luoghi dove si può vedere il traffico di animali esotici come scimmiette, orsetti, uccelli, che vengono comprati qui per un’inezia e poi rivenduti nei mercati neri occidentali, e ci si accorge di come loro pensino sia un commercio remunerativo, anche se sono due soldi, facile e innocuo, quando invece molti di quegli animali saranno costretti a morire in cattività e senza la possibilità di riprodursi. E poi sono quasi tutti cuccioli per appropriarsi dei quali i cacciatori hanno ucciso i loro genitori. Il mercato nero degli animali esotici è dannosissimo per la foresta e dà denaro a molte bande criminali, esattamente come il traffico di stupefacenti come la cocaina, che distrugge la selva tra alberi abbattuti e tonnellate di solventi chimici riversate nei fiumi e sul suolo.
Il ritorno in Ecuador non è particolarmente movimentato se non per l’avvistamento di alcuni delfini rosa, rari cetacei d’acqua dolce, che la tradizione identifica come gli spiriti del mondo sommerso, capaci di avere rapporti con le donne e di attirare gli uomini (forse un’idea mutuata dalle sirene occidentali?). Essendo attirati dal sangue è vietato alle donne mestruate entrare nei corsi d’acqua. In realtà i delfini sono innocui, a differenza di piraña, alligatori e larve particolari. Comunque sia, il delfino rimane un animale mitologico che ricorre spesso nei racconti degli sciamani, insieme a serpenti, giaguari, rospi e ragni, e con il quale entrerebbero in contatto durante il sogno notturno o le visioni indotte.
La nostra barca si è arricchita dello strano carico dei militari. A San Lorenzo avevano difatti preso i rifornimenti per la caserma e cosa avevano comprato? Uno scatolone ingombrante con migliaia di tubetti di lucida scarpe, e una prostituta che avrebbe firmato un regolare contratto statale per soddisfare i commilitoni nei prossimi 4 mesi! Quand’ero militare in Italia era molto diverso, tranne che per il lucida scarponi.
Tornati al campo di partenza i compagni di viaggio di Macas, persone simpaticissime e gentili, ci invitano tutti a cena o a pranzo da loro, ma prima passiamo alcuni giorni nella casa nella foresta di un conducente della barca, Victor. Dopo ore di cammino con il fango alle ginocchia, arriviamo al villaggio Shuar dove Victor sta creando un centro ecoturistico dove la gente possa curarsi con le piante medicinali da lui stesso coltivate, mangiando solo cibi naturali e tipici, facendo escursioni nella foresta scoprendo la flora e la fauna autoctone. Victor possiede anche due ettari d’ayahuasca, molto richiesta nei mercati cittadini per le sue proprietà mediche, con le quali ha lui stesso curato una ragazza da una forma di diabete. Gli indigeni del villaggio sono amichevoli e il loro cibo è ottimo. Victor ha molte idee, ed è disponibile a possibili consigli e ad accettare persone perché gli diano una mano nel progetto che sta sviluppando. Per proporvi potete contattarlo direttamente all’ indirizzo email soletours7@ hotmail.com, scrivendo in spagnolo o al limite in inglese base.
I Secoya
Oriente ecuadoriano, confine con la Colombia Shushufindi poggia sopra mari di petrolio, tanto che pur essendo ancora notte il cielo è illuminato da alte colonne di fuoco che partendo dai pozzi arrivano a lambire e tingere di rosso le dense nubi. L’oro nero ha attirato coloni da ogni dove, che ora vivono in baracche ammucchiate una sull’altra, la foresta è tagliata fino all’orizzonte e sostituita da piantagioni di palme africane da olio delle multinazionali. Lasciamo senza troppi rimpianti quest’angolo di mondo
e scendiamo per più di un’ora lungo il Rio Aguarico sotto ad un acquazzone tropicale e arriviamo dai Secoya, tribù di poche centinaia di pacifici e laboriosi indigeni. Basilio ci ospita nella sua palafitta a due piani e per una settimana ci insegnerà i segreti della foresta. La moglie non parla spagnolo e non ci scambia nessuna parola, ma non manca mai di cucinare per noi buonissimi piatti tradizionali caratterizzati dal piccante pepe fresco che cresce spontaneo.
I Secoya possiedono la conoscenza di innumerevoli piante medicinali, la più importante delle quali rimane l’ayahuasca, qui chiamata “ya-hé”, base anche dei culti sciamanici un tempo praticati da tutti. Ora professano la fede evangelista, ma rimangono ancora tre sciamani, il più famoso dei quali è sicuramente Cesario, forte novantenne che riceve visite da studiosi di tutto il mondo interessati alle sue ancestrali conoscenze.
Basilio mi illustra le proprietà di alcuni arbusti che servono a migliorare l’olfatto dei cani e donare loro un irresistibile desiderio di caccia. Con il loro aiuto un giorno Basilio uccide un formichiere e lo cuoce appena sopra al fuoco e poi ricoprendolo di foglie fa in modo che si affumichi lentamente; un sistema di conservazione molto efficace dove non esistono frigoriferi. La sua carne è ottima, simile al capretto, e ci si meraviglia di quanta massa ci si possa fare mangiando formiche e termiti. Un cane è però rimasto ferito dalle unghione del formichiere e nugoli di mosche attaccano la carne viva. Dopo un paio di giorni lo ritroviamo con la gamba scavata dai bigattini che se ne stanno nutrendo, ma con un intervento in extremis gli indigeni rimuovono le larve e disinfettano il tutto con del petrolio puro.
La notte dormiamo su delle amache matrimoniali che Basilio costruisce, ricavando la fibra necessaria dalla corteccia di un grande albero. Nel bel mezzo del riposo veniamo svegliati da un inquietante serpente rosso-nero che striscia per la stanza e ci impedirà per le serate successive di dormire senza accendere ogni mezz’ora la pila e guardarci attorno; moriamo dalla paura di ritrovarcelo addosso, e ben presto al serpente si aggiungono grossi scorpioni e tarantole. Non è certo un bel posto se qualcuno non ama gli animali!
I giorni successivi passiamo le afose giornate andando a pesca e studiando altre interessanti piante medicinali, come una curiosa specie di Crassulaceae utilizzata con successo contro ulcere e infezioni. Quando entriamo nella selva Basilio si gira a destra indicandoci un albero la cui corteccia e linfa servono per favorire la guarigione delle fratture, a sinistra una pianta ha un succo contro i parassiti intestinali, e così via, migliaia di piante tutte con possibili effetti farmacologici e per lo più sconosciute alla scienza! Rimango ogni volta sorpreso nel pensare a come abbiano fatto gli indigeni a scoprire l’effetto di ogni pianta e parte di pianta, pur vivendo nel più grande giardino botanico del mondo che è l’Amazzonia. Loro affermano che gran parte della conoscenza sulle piante può essere fornita loro dall’ayahuasca, ma a parte questo, mi sorge il dubbio su quante cavie, umane o non, siano state usate nei tempi antichi per testare gli effetti. Inoltre utilizzano anche preparati sinergici, dove l’utilizzo combinato di piante migliora l’efficacia di alcuni componenti che da soli avrebbero poco o nessun effetto.
Ci vengono mostrate delle piccole formichine che costruiscono i nidi all’interno di ramoscelli rigonfi e che l’indigeno mi dice essere ottime; i loro pizzicori fanno l’effetto di una caramella effervescente con un gusto di limone che perdura a lungo, e di lì a breve mi ritrovo a leccare un ramoscello dopo l’altro!
Per finire il nostro pur breve addestramento alla vita nell’Oriente ecuadoriano, Basilio ci invita a salire sulle canoe tradizionali e provare a remare stando sotto riva. Sarà che siamo più alti e non abbiamo il loro equilibrio, ma riusciamo a fare solo pochi metri, poi l’imbarcazione comincia a dondolare e a imbarcare acqua finché io e il mio amico affondiamo miseramente nel Rio Aguarico. Basilio se la ride e del resto non ha tutti i torti, visto la magra figura.
Una settimana passa come un lampo, ormai è ora di tornare a Quito portandoci appresso tante nuove esperienze. Sui Secoya potrei scrivere pagine intere sulle loro abilità e sulle cose che mi hanno insegnato e mostrato, ma mi piace ricordarli soprattutto per la tranquillità della loro vita, la disponibilità e l’impegno con cui tramandano le loro tradizioni, con l’augurio che possano farlo ancora per molto tempo.
Il Jack