E se provassimo ad immaginare delle vere e proprie città prigione, all’interno delle cui mura i detenuti possano vivere una vita normale? Alzandosi il mattino per andare al lavoro, producendo beni e fornendo servizi che rendano la città indipendente ed esportando ciò che si riuscisse a produrre in più? Insegnando a chi è uscito dal seminato la soddisfazione di contribuire alla crescita di un modello sociale partendo dalle basi, dai minimi termini, dove i primi ad essere rinchiusi dovrebbero essere coloro che hanno vissuto di finanza speculativa senza produrre nulla, dove si possano recuperare i valori perduti.
Città rette da un nuovo sistema giuridico e governate da menti illuminate in cui la meritocrazia sia reale e dove a nessuno (dopo un po’ s’intende) venga più voglia di sgarrare o di rubare, perché farebbe sgarri e ruberebbe a se stesso. Un modello dal quale partire per rifondare la società intera, che paradossalmente si troverebbe costretta a seguire gli esempi dei propri “figliastri” reietti e degeneri, anziché cercare di seppellirli in enormi cassonetti per rifiuti umani quali sono oggi i carceri. Dove dopo qualche tempo si possa istituire libere elezioni su piccola scala, prive di tutto il veleno che oggi circola nelle sedi istituzionali e dove chi si propone lo faccia col potere che deriva da quanto le loro idee sono amate e condivise, dove si possa condividere veramente i frutti del proprio lavoro e se si deve “fare la fame” si soffrirà tutti insieme.
Forse si può ricominciare dal basso e cercare di fare ciò che in grande non riesce più al nostro Paese: vivere in pace! Sarebbe davvero una grande lezione se dovessimo reimparare a farlo da coloro che non reputiamo più in grado di avere diritti. Forse la lista dei morti di galera, di miseria, di paura, di solitudine, di strage, di abbandono e di vergogna non esisterebbe più, e tutte quelle che finora abbiamo letto e digerito, potrebbero portare in calce la firma di chi in questi anni è riuscito a non assumersi le proprie responsabilità.