Uno studio rivela quale paese resisterebbe meglio al crollo della civiltà moderna
Un nuovo studio ha recentemente fornito la risposta. “An Analysis of the Potential for the Formation of Nodes of Persisting Complexity”, paper di Nick King e Aled Jones dell’Anglia Ruskin University, nel Regno Unito, esplora il rapporto tra la società umana post-industriale e la terra intesa come biosfera, identificando i paesi più preparati ad un eventuale dissolvimento dei sistemi di approvvigionamento, dei sistemi finanziari o degli accordi internazionali, il cosiddetto fenomeno della “de-complessificazione”. Secondo gli studiosi, la Nuova Zelanda si aggiudicherebbe il primo posto come paese più pronto a resistere ad un ipotetico evento catastrofico di livello globale, ragione per cui il numero di super ricchi interessati a trasferirsi nell’arcipelago al largo dell’Australia è in costante crescita.
Nella ricerca, la civiltà umana viene definita come un sistema fisico aperto che deve mantenere un “livello minimo di energia disponibile” per evitare il decadimento. Partendo da questo presupposto King e Jones hanno sviluppato una serie di indicatori della resistenza di vari paesi ad eventi catastrofici globali, tra cui la capacità di produrre cibo, di mantenere attiva la rete elettrica, di rimanere isolati, il mantenimento di condizioni climatiche costanti, nonostante il riscaldamento globale, e la scarsa soggezione a fenomeni migratori di massa, caratteristica degli stati insulari, che per l’appunto rappresentano la maggior parte dei paesi citati nello studio. Insieme alla Nuova Zelanda, hanno infatti ottenuto buoni risultati anche Australia (particolarmente la Tasmania), Islanda e Irlanda, tutti paesi definiti “collapse lifeboats”, scialuppe di salvataggio dal collasso. Tra questi il paper include anche il Regno Unito, che presenta però una situazione più complessa. Sebbene gli UK presentino infatti un’abbondanza di territori coltivabili, l’elevata densità di popolazione ridurrebbe drasticamente la quantità di terreni agricoli pro capite, fattore che solleva diversi interrogativi sulla futura autosufficienza del paese.
Ma quali sono le sfide che l’uomo dovrà affrontare in futuro? Secondo i due studiosi, una combinazione di scarsezza di risorse, distruzione ecologica e aumento repentino della popolazione, favoriti dal veloce avanzamento del riscaldamento globale e da una forte interdipendenza economica tra stati, potrebbero portare a fenomeni catastrofici, fenomeni di cui difficilmente si possono prevedere le tempistiche. Da quanto emerge dalla ricerca, il decadimento della civiltà potrebbe infatti presentarsi come un fenomeno graduale, come un fenomeno immediato, o, ipotesi più plausibile, come una via di mezzo, come un evento dall’incipit lento, destinato però ad evolversi con crescente rapidità.
Lo studio apre interessanti questioni non solo sul futuro del pianeta, ma soprattutto sulla tenuta dei moderni sistemi economici. Intervistato dal The Guardian, il dottor Jones, co-autore dello studio, ha infatti espresso i propri dubbi sulla capacità di resistenza dei moderni modelli economici, le cosiddette “just in time economies”, esortando invece la comunità internazionale allo sviluppo di soluzioni che permettano una risposta efficiente a futuri eventi di tipo catastrofico, eventi forse non così lontani.