Cosa si è deciso all’Onu in tre giorni di confronto sulla cannabis e le droghe?
Chi si aspettava un cambio d’indirizzo netto, o una dichiarazione sul fallimento della “war on drugs” è rimasto deluso, così come, va detto, chi si aspettava che venisse ribadita l’indiscutibilità delle ricette repressive. Il vertice Ungass, l’incontro Onu in cui i paesi del mondo si incontrano per discutere le politiche verso le droghe, si è rivelato sostanzialmente interlocutorio. Ma va annotato che, per la prima volta, si è registrato un buon numero di paesi che ha chiesto con decisione un cambio di strategia.
DI COSA SI E’ DISCUSSO A NEW YORK. Il vertice internazionale sulle droghe, inizialmente previsto per il 2019 era stato anticipato al 2016 dopo la richiesta di tre paesi tra i più colpiti dal narcotraffico internazionale: Colombia, Guatemala e Messico, i quali avevano chiesto un vertice straordinario. Fino ad oggi le politiche internazionali sulla droga sono guidate dai principi che vennero approvati durante l’Assemblea Generale del 1998, apertasi sotto lo slogan “Un mondo senza droghe, possiamo farcela”, nella quale si era sancito l’ambizioso obiettivo di “eliminare o ridurre significativamente” le coltivazioni di oppio, coca e cannabis in dieci anni. La traduzione pratica di quanto stabilito è stata attuata in molti paesi, specie del centro-america, con la cosiddetta “war on drugs” (guerra alla droga) basata su interventi aggressivi di eradicazione forzata delle coltivazioni, guerra ai cartelli del narcotraffico e repressione poliziesca. Dieci anni dopo, al meeting Onu ad alto livello del 2009, l’obiettivo venne ribadito e spostato in avanti di altri dieci anni, senza alcuna vera valutazione delle politiche adottate, dei loro risultati e dei loro costi umani.
IL DOCUMENTO FINALE APPROVATO DAGLI STATI MEMBRI. Il documento finale firmato all’Onu non contiene sicuramente il cambio di approccio che i paesi centro-americani auspicavano. La cornice della risoluzione rimane la medesima delle precedenti e ne ribadisce l’obiettivo di fondo. Tuttavia alcuni elementi di novità, seppur in misuratissimo linguaggio diplomatico, emergono. Innanzitutto si promuove un approccio «multidisciplinare», non solo basato sulle operazioni di polizia, ma «integrato, mutuale, bilanciato e basato sull’evidenza scientifica». Un piccolo passo avanti. Inoltre, e forse è più importante, il documento approvato riconosce che, di fronte alle sfide in atto, deve esserci una «sufficiente flessibilità per gli Stati parti di progettare e attuare politiche sulle droghe nazionali secondo le loro priorità ed esigenze». Tradotto: nessuno andrà a protestare contro il governo uruguaiano che ha legalizzato la cannabis, né contro quello canadese che si appresta a farlo nei prossimi mesi.
LA POSIZIONE ESPRESSA DAI PAESI CENTRO-AMERICANI. Dopo la promulgazione del documento finale Colombia, Guatemala e Messico hanno comunque rilasciato dei comunicati in cui ribadiscono la necessità di una svolta internazionale. Il presidente del Messico Enrique Peña Nieto ha detto che la lotta alla droga deve essere vista dalla «prospettiva dei diritti umani», e ha avvertito che pene severe per l’uso di droghe “creano un circolo vizioso di emarginazione e criminalità». Simili prese di posizioni sono state prese anche dal Canada e da altri paesi. Insomma, se durante il vertice del 2009 era stato il solo presidente della Bolivia, Evo Morales, a denunciare l’iniquità della guerra alla droga, dimostrandosi una voce coraggiosa di rottura, ma del tutto isolata nel clima di ortodossia proibizionista di allora. A distanza di soli sette anni si sta formando un nucleo di paesi riformatori che costringono anche chi non è d’accordo a confrontarsi con loro.
IL DIBATTITO SULLA PENA DI MORTE: LO SCOGLIO MAGGIORE.I delegati provenienti da Unione Europea, Svizzera, Brasile, Costa Rica e Uruguay, tra gli altri, hanno chiesto l’abolizione della pena di morte per i reati legati alle droghe, una pratica ampiamente utilizzata in molti paesi, come Cina, Iran e Indonesia. Il delegato indonesiano è stato fischiato quando ha sostenuto che spetta ai singoli Stati decidere sull’uso della pena di morte, in una dichiarazione appoggiata da Singapore, Arabia Saudita, Cina, Iran e Pakistan, tra gli altri Paesi. Il documento finale adottato nella sessione non fa alcun riferimento alla pena di morte, ma chiede ai governi di «promuovere politiche giudiziarie nazionali proporzionate» e che «la gravità delle sanzioni sia proporzionata alla gravità dei reati».
I PAESI CONTRARI: PAKISTAN, CINA E VATICANO. Non sono mancate inoltre prese di posizioni seccamente contrarie ad ogni ipotesi di legalizzazione, in particolare da parte del Pakistan e della Cina. Il Pakistan, per bocca del proprio Ministro dell’Interno, ha detto di essere seriamente preoccupato per la tendenza verso la legalizzazione dell’uso di marijuana e altre droghe, che «darebbe un impulso alla domanda di droga, intensificando la filiera con ricadute dirette sulla nostra regione», mentre il Ministro cinese per la Sicurezza Pubblica Guo Shengkun ha ribadito che secondo Pechino «ogni forma di legalizzazione degli stupefacenti deve essere risolutamente contrastata». Anche il Vaticano si è espresso contro ogni legalizzazione ribadendo, tramite monsignor Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, «la ferma opposizione della Santa Sede alla legalizzazione dell’uso degli stupefacenti, la cui diffusione si contrasta piuttosto affrontando i problemi che ne sono la causa».
LA POSIZIONE ESPRESSA DAL GOVERNO ITALIANO. A rappresentare il governo italiano era presente il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, il quale nel suo intervento ha sottolineato l’importanza da parte della comunità internazionale di «riconoscere pienamente l’uso di droghe come un problema di salute e la dipendenza dalle droghe come un disordine» che «deve essere curato e non punito». Secondo il ministro della Giustizia, «il nostro approccio dovrebbe essere pragmatico, non ideologico: un approccio che punti al risultato, che incoraggi i vari Paesi a promuovere politiche pubbliche motivate dal criterio dell’efficacia e non della demagogia», perché al centro di tutto «dovrebbe esserci l’essere umano».