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Una cultura che buca lo schermo: Luca Gricinella ci racconta il “Cinema in rima: la messa in scena del Rap”

Una cultura che buca lo schermo: Luca Gricinella ci racconta il “Cinema in rima: la messa in scena del Rap”Per Quentin Tarantinonon esiste un cinema alto e uno basso; ci sono solo buoni e cattivi film, dipende dalle reazione suscitate dallo spettatore”. Per questo non si deve essere scomposto più di tanto quando RZA, già attore con registi del calibro di Jim Jarmush e Ridley Scott, volò a Pechino durante la realizzazione di “Kill Bill”, sia per realizzarne la colonna sonora, sia per carpire i segreti di un maestro della regia, messi in pratica in “The man with the iron fists”, diretto appunto dal rapper di punta del Wu Tang Clan. Uno degli ultimi esempi della commistione tra due linguaggi diversi che si annusano da anni, confrontandosi, conoscendosi e unendosi per raccontarsi a vicenda. Il doppio filo che lega il cinema al mondo del Rap e dell’Hip Hop più in generale, è stato ricostruito dalla penna di Luca Gricinella nel libro “Cinema in rima – La Messa in Scena del Rap”, pubblicato da Agenzia X, che aveva già dato alle stampe il suo “Rapropos”, una lucida fotografia della scena francese, saldamente ancorata alle sue radici.
«I produttori musicali Hip Hop sin dagli inizi campionano il cinema, mentre i rapper citano nelle rime i personaggi dei loro film preferiti. Negli anni, i secondi sono passati anche dietro la macchina da presa», spiega Luca, precisando che: «D’altronde le vite dei rapper sono sceneggiature perfette contese dai produttori di Hollywood, come quella di Notorious B.I.G., da cui è stato realizzato un buon film».

 

In America il rap è entrato nel cinema sia a livello di sceneggiature sia di attori, produttori e registi. Cosa significa?
È accaduto anche nel secondo mercato Hip Hop al mondo, la Francia. Oltralpe c’è JoeyStarr, voce degli NTM, che per esempio ormai è più noto come attore che come rapper, e i membri de La Rumeur, oltre a scrivere rime taglienti, sono anche sceneggiatori e registi di film. In Italia c’è stato qualche tentativo ma niente di più. A prescindere dalla nazione, la ragione prima del consolidamento di questo rapporto è il legame naturale che sia il cinema sia il rap hanno con la finzione. Nel mio saggio analizzo i rapporti tra Rap (in qualche caso, più in generale, Hip Hop) e cinema di finzione. L’Hip Hop nasce in un quartiere disagiato, il Bronx degli anni ‘70, e se c’è una dinamica classica in ogni periferia è quella di evadere dalla realtà vissuta. C’è chi riesce a evadere davvero, magari facendo carriera in uno sport, ma anche chi non ce la fa o non può proprio staccarsi da quegli ambienti e allora evade con le dipendenze (droga, alcol ecc…). Spesso però si evade anche calandosi in un personaggio.

Una cultura che buca lo schermo: Luca Gricinella ci racconta il “Cinema in rima: la messa in scena del Rap”In che senso?
Quegli appartamenti stretti e magari inospitali – proprio quelli che si vedono nei film – ti portano a stare in giro, per strada. Lì, oltre ad arrangiarti per mantenerti, ammazzi il tempo con i tuoi compagni di quartiere e per emergere, per convincerti di non essere come chi ha già il destino segnato, devi atteggiarti. Magari facendo il verso all’eroe di turno che, sul piccolo o, ancora meglio, sul grande schermo, hai visto prendersi la sua rivincita con la società, fare i soldi, conquistare potere ecc… Non importa come. Se quello per il borghese medio è il cattivo, dunque l’antieroe che alla fine del film difficilmente se la cava, per te che non te la passi bene resta un mito, un eroe, che almeno per un po’ se l’è goduta. Allora perché non immaginare di essere lui? Non costa niente e magari su qualcuno puoi pure esercitare una buona dose di fascino. Il cinema conserverà sempre questa dote di arrivare a tutti, di raccontare storie al popolo e suggestionarlo come nessuna altra forma artistica riesce a fare. O almeno non con lo stesso grado di fruibilità.

Per quello che riguarda l’Italia, invece, molti dicono che l’Hip Hop sia stato introdotto dal film Flashdance. Come al solito siamo un Paese che funziona al contrario?
Beh, a suo modo lo dice anche Gruff nel suo pezzo Dj Gruff Hip Hop Storia: “flashati per via di Flashdance”. E la sua è una voce quanto mai autorevole…
Sinceramente non la vedo come una cosa negativa. Flashdance è un film con una sceneggiatura sfilacciata, ok, ma non si può ignorare che è stato concepito come film di intrattenimento, dunque si rivolge a tutti. Non a caso è stato campione d’incassi in vari Paesi. Credo di aver avuto nove anni quando anch’io sono andato a vederlo al cinema. Se quella banale scena di raccordo con i breaker della Rock Steady Crew in azione, ai più non ha detto nulla ma ha incuriosito una minoranza, direi che va dato atto a chi ha deciso di inserirla che è stato anche coraggioso. All’epoca non c’era internet e le riviste (magari con le foto, ok) o i racconti di chi era stato a NY, non bastavano a far capire cos’era quel fenomeno in ascesa (mi riferisco sempre all’Hip Hop, chiaramente). Le immagini in movimento che raccontavano storie hanno assolto dunque una funzione informativa importante.

Qual è la situazione nel resto dell’Europa?
Tra i paesi che non abbiamo citato credo che il più importante sia l’Inghilterra, dove si producono anche film come StreetDance, che io nel saggio includo in questo filone che chiamo “urban teen movie”. Lo cito perché si riallaccia bene al discorso su Flashdance. Gli elementi cardine sono danza, storia d’amore e spirito di competizione (che da quando spopolano i talent show ha ancora più presa sul grande pubblico). Anche qui si tratta di puro intrattenimento. Preso atto di ciò, se il ragazzino o la ragazzina di turno in quelle coreografie, in certi brani della colonna sonora (dove figura anche Wiley, per esempio) o ancora nel look ci vede qualcosa che lo incuriosisce e lo porta a fare una ricerca sul web e scoprire altro, è solo positivo. Poi in Inghilterra c’è anche una forte tradizione d’autore che per esempio porta a caratterizzare la protagonista di Fish Tank come un’adolescente di periferia che si rifugia nella cosiddetta “danza Hip Hop” per riflettere, sfogarsi e rilassarsi. Tutt’altra storia, tutt’altro punto di vista.

E riguardo ad Ali G?
Credo non vada dimenticato perché è un film che ironizza in maniera talmente sbracata sull’ambiente, che, per quanto si prendano sul serio certi adepti di questa cultura, potrebbe quasi essere terapeutico. È demenziale quanto “Sballati al college” ma scopre dei punti nevralgici per chi sente di appartenere all’Hip Hop. Per esempio mette in risalto uno degli aspetti da cui parte la mia tesi: il rapper non è solo incazzato o impegnato ma è anche un attore, spesso e volentieri cazzone. O magari è tutto insieme, perché di rapper conscious che poi dal vivo ti mettono in piedi uno show teatrale o che in pubblico hanno movenze e pose non proprio naturali, ce ne sono eccome.

Una cultura che buca lo schermo: Luca Gricinella ci racconta il “Cinema in rima: la messa in scena del Rap”Quest’anno “Wild Style” compie trent’anni. Che significato ha quel film oggi e cosa è cambiato rispetto alla filmografia odierna?
I film di quella prima ondata, tra cui appunto il capostipite “Wild Style”, sono molto didascalici riguardo alla messa in scena dell’Hip Hop. Come se la paura di non venir capiti o di venir travisati, abbia inciso molto sulle scelte di sceneggiatori e registi. Il loro valore storico è innegabile: certi ambienti vengono mostrati con un piglio documentaristico. Insomma, per chi non le ha vissute – ma a quanto pare anche per chi le ha vissute – le atmosfere dell’epoca sono ben restituite. Wild Style per quanto mi riguarda è il più riuscito di quelle prime rappresentazioni. Rispetto a “Beat Street”, “Breakdance”, “Krush Groove” o “Rappin’”, lo trovo più genuino; inoltre ha un’estetica da film indipendente/sperimentale che lo salva da quella fotografia anni ’80 che sì, dice molto di quel decennio, ma è anche un po’ stucchevole. Il difetto più evidente di questi film comunque è la recitazione. In questo senso Krush Groove vince perché il regista, Michael Schultz, non era e non è proprio un signor nessuno.

A cosa si potrebbe paragonare oggi un lavoro del genere?
Oggi, se vogliamo trovare degli equivalenti, potremmo fare un paragone con i biopic, dunque “8 Mile”, “Get Rich or Die Tryin’” o “Notorious”. Equivalenti perché il fulcro del racconto ha a che vedere in continuazione con l’Hip Hop. Non insomma come tanti altri film che sono stati prodotti in mezzo – più che altro negli anni ’90 – in cui il Rap e più in generale l’Hip Hop non potevano essere ignorati ma non occupavano il centro della narrazione (su tutte, le pellicole ambientate nelle periferie metropolitane). Il mio libro arriva oggi anche per questo, perché siamo giunti al punto in cui un racconto più o meno fedele della vita di un rapper è una fiction quanto mai credibile. Il Rap e le altre discipline si sono talmente radicate a livello popolare che la loro narrazione è diventata universale. Non è più il racconto di un ambiente ristretto ma si tratta di storie di vita di più ampio respiro in cui il pubblico – non ovunque e non tutto, ma per lo più sì – si orienta, ha gli elementi per riconoscersi.

Cosa è cambiato?
La conoscenza del pubblico che di conseguenza ha fatto aumentare gli investimenti dei produttori in film con storie e ambientazioni simili. Certo, la generazione di Lee, Singleton, Van Peebles (figlio), dei fratelli Hughes ecc… in mezzo ha contribuito ad abbattere diverse barriere in questo senso. Ha fatto capire quanto il punto di vista afroamericano, dunque interno alla comunità più importante per l’hip hop, fosse valido, interessante e redditizio.

Come è nata l’idea di questo libro?
A parte quanto già detto, e aver studiato cinema e seguire il rap da tanti anni, hanno influito anche le polemiche che regolarmente scoppiano su quanto il rap sia “politicamente scorretto”, violento o diseducativo. Orelsan in Francia, dopo un pezzo in cui raccontava la frustrazione di un giovane lasciato da una ragazza e che, sotto i fumi dell’alcool, gliene diceva di tutti i colori, promettendole vari tipi di violenza, è stato fatto a pezzi dall’opinione pubblica. Lui si è appellato al fatto che si trattava di un racconto di finzione in cui descriveva, con il linguaggio diretto del Rap, il dolore di un ragazzo senza punti di riferimento e cresciuto in questa società. Aggiungeva che il pubblico più giovane, che conosce bene il Rap, di certo sa distinguere tra realtà e finzione, molto meglio delle generazioni precedenti.

Secondo te è un problema di linguaggio?
Andando oltre la questione ‘giusto o sbagliato’ o ‘pericoloso o innocuo’, si potrebbe ammettere che il problema non è e non può essere il rap. È chiaro però che per capire appieno il linguaggio rap, e dunque accettarlo, bisogna passare anche da questi conflitti. È successo anche con altri generi musicali. In Italia su cantautori e rocker ormai quasi nessuno si pone più certi dubbi. Se uno di questi usa una parola come “puttana” (come ha fatto in più canzoni Lucio Dalla) non parte la crociata. Ti faccio un altro esempio: gli Zen Circus in “Vecchi senza esperienza”, cantano “Sembra che oramai vada di moda quello che prendevo solo schiaffi a farlo nel ’93, i pantaloni stretti eran da froci e non da fighi […]”. Nessuno ha messo in dubbio che “froci” sia un termine scelto dal gruppo rock per disprezzare i gay. I più hanno colto che quel termine è messo in bocca a terze persone che ragionano secondo certi canoni.

Perché?
Il linguaggio Rock ormai è radicato e dunque per lo più compreso. Al Rap qui da noi molti ancora si rifiutano di attribuire licenze artistiche e si limitano a giudicarlo secondo canoni della nostra cultura ignorando che, anche se fatto da un italiano, il Rap resta quello nato nel Bronx e lo sconfinamento non può annullarne le caratteristiche espressive. Anche il Rock prodotto in Italia ha vari tratti imitativi del Rock statunitense, no?

Una cultura che buca lo schermo: Luca Gricinella ci racconta il “Cinema in rima: la messa in scena del Rap”Quali film devono essere visti assolutamente da un estimatore di questa cultura?
Evitando di fare il copia/incolla della filmografia in calce al mio saggio, e restando sui film di finzione, ti dico che in qualche modo tutto parte con “I guerrieri della notte” e poi esplode con “Fa’ la cosa giusta”. Dunque questi due li metterei in cima alla lista, anche perché sono proprio dei film ben fatti e hanno un potenziale di coinvolgimento trasversale, non di nicchia. Però in realtà l’elenco sarebbe troppo lungo e in parte abbiamo già citato dei titoli importanti, che di certo gli appassionati conoscono. Se a qualcuno è sfuggito “The Wire”, consiglierei di recuperarlo perché sembra aprire un nuovo capitolo narrativo sui quartieri disagiati metropolitani. Essendo una serie tv con tanti personaggi e tanti ambienti messi in scena, la descrizione è più articolata rispetto a quella di un film che dura un’ora e mezzo. Già dice molto il fatto che Obama abbia eletto Omar Little suo personaggio preferito, perché si tratta sì di un uomo della strada cresciuto nel disagio ma anche di un criminale che di certo ha un codice etico ma che quando capisce che non gli resta che uccidere, lo fa, e, tanto per rivedere ulteriormente i cliché, è gay…

Al cinema meglio bibita e pop corn (o addirittura fumo libero come Vinz nell’Odio) o religioso silenzio?
Il “religioso silenzio” dovrebbe essere un presupposto scontato quando si va al cinema (ma anche a teatro, a certi concerti). Ma rispettarlo dipende anche da cultura a cultura. In Italia attualmente pare arduo vedere un film in una sala silenziosa. Riguardo ai pop corn, forse si potrebbero fare sale in cui non si possono introdurre alimenti e altre in cui è consentito. Però boh… in Italia il cinema già non se la passa bene, dunque temo potrebbe essere una mossa non del tutto intelligente.

Che ne pensi di The Art of Rap del quale è appena uscita la versione tradotta in italiano?
È un buon documento che spiega bene cos’è e come è inteso il concetto di stile nel rap e dà una visione unitaria della scena rap statunitense – specie quella più matura – che oscura un po’ l’immaginario popolare che vuole i rapper sempre in guerra tra fazioni.

Avrebbe senso un progetto del genere in Italia?
Dipende a chi ci si vuole rivolgere. Temo che qui da noi diamo troppo per scontato che teen-ager e neo ventenni siano del tutto sprovveduti, dunque spesso per questioni di mercato si strizza l’occhio alla parte più ingenua delle nuove generazioni o comunque si tende solo a circuirli. Ecco, in questo caso non credo avrebbe senso. A vedere The Art of Rap al cinema ho visto sia ragazzini (tanti) sia trentenni/ultratrentenni. Dunque un pubblico c’è. Ok, non credo abbia incassato molto, quindi magari converrebbe pensarlo per la tv, magari in due o tre parti e con trasmissione in streaming sul web, per arrivare a più gente.

Una canzone del Colle der Fomento è presente nella colonna sonora del film “Jumper”. Sei a conoscenza di altre curiosità?
Ci sono gli En Mi Casa che, anche grazie alla presenza di B Real dei Cypress Hill, hanno piazzato “Street Code” nella colonna sonora di “Fast & Furious – Solo parti originali”. Se penso all’Italia invece, nel saggio cito “La prima volta”, un film del 1999 con un punto di vista decisamente cattolico ambientato nelle periferie romane e in cui a un certo punto si vedono (e sentono) Neffa e Deda in azione sul palco del Testaccio Village a Roma. Ti assicuro che se vedi tutto il film, anche visto che loro compaiono verso il finale, fa uno strano effetto.

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Mario Catania (Twitter @Rioma82)



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