Perché trasformare Internet può salvare il pianeta
Digitando su Google «il cambiamento climatico è…» si ottiene subito una cascata di suggerimenti di completamento automatico: «…colpa dell’uomo», «…la sfida chiave del nostro tempo», «…reversibile», «…una bufala», potrebbe suggerirvi il vostro browser. Ma nessuno di noi, come insegna il recente documentario “The Social Dilemma“, vede esattamente gli stessi suggerimenti degli altri. Su Internet ciascuno abita una bolla di contenuti personalizzati che rispecchiano la propria visione del mondo, costruita mediante la profilazione che i big della tecnologia, come Google, Facebook e Amazon, fanno del loro pubblico.
Questo ci impedisce di allenare un’attitudine di ascolto e di dialogo, perché non essere esposti a punti di vista diversi dal nostro rende più difficile sviluppare un’interpretazione condivisa della realtà. Senza di essa, agire collettivamente diventa molto difficile. E per la lotta ai cambiamenti climatici, definita da un esperto dell’Università di Yale come “la madre di tutti i problemi di azione collettiva”, questo è un problema.
GLI ALGORITMI E IL CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE
Sappiamo che gli smartphone nelle nostre tasche e i loro algoritmi sono stati in grado di modificare le nostre abitudini in profondità, sottoponendo miliardi di persone ai “trucchi” della psicologia comportamentale. Proprio per questo potrebbero contribuire in modo straordinario a generare i cambiamenti collettivi necessari alla salvezza del pianeta, a patto di ripensare alcune loro funzionalità e caratteristiche.
Il problema è che spesso non sono stati utilizzati per modificare i nostri comportamenti al fine di migliorare il nostro modo di convivere con gli altri e con la natura. Come spiega Tristan Harris, ex design ethicist di Google e co-fondatore del Center for Humane Technology (CHT), il modello di business adottato dai colossi di Internet non promuove un’economia del benessere olistico; piuttosto, è pensato per alimentare un’economia dell’attenzione dove l’unico valore monetizzabile è il tempo che l’utente passa incollato allo schermo. Quest’ultima viene “estratta” per mezzo di alcune soluzioni di design che conosciamo bene. I like, lo scroll infinito deifeed, i tag e le notifiche push generano nel cervello piccole ma frequenti scariche di dopamina (un neurotrasmettitore che si attiva tutte le volte che ci sentiamo appagati), grazie a cui l’engagement degli utenti schizza alle stelle, fino a scatenare dinamiche di vera e propria dipendenza dalla tecnologia.
Unendo questi metodi per catturare l’attenzione al costante monitoraggio delle nostre attività online, gli algoritmi sono divenuti in grado di prevedere in anticipo quali contenuti e pubblicità inserire in ogni momento della nostra giornata. Non importa che tipo di contenuti siano, né se facciano bene alla nostra salute mentale o alla società: basta che coinvolgano il più possibile e mantengano le persone davanti allo schermo.
Come viene spiegato in “The Social Dilemma”, infatti, le aziende sanno che, grazie a questo coinvolgimento in un ragionevole lasso di tempo il comportamento degli utenti muterà automaticamente nella direzione da loro desiderata. E dal momento che gli inserzionisti pagano per caricare le loro pubblicità sui social, questo cambiamento comportamentale collettivo indotto dalla tecnologia è esattamente ciò che ha reso questo business uno dei più redditizi della storia.
DALL’ECONOMIA DELL’ATTENZIONE ALL’ECOLOGIA DELL’INFORMAZIONE
Proprio come l’economia estrattivista dei combustibili fossili produce beni di consumo di breve durata, l’economia dell’attenzione si propone di estrarre, mediante ingegnosi algoritmi, tutta l’attenzione di cui la nostra psiche è capace offrendole sempre più fugaci ricompense digitali. Se l’una si è dotata di trivelle che perforano la terra e scatenano forze incontrollabili che distruggono gli ecosistemi, l’altra ha capito come innestare idee e abitudini sempre più in profondità nella coscienza delle persone. A farne le spese è ciò che gli studiosi chiamano “ecologia dell’informazione”, ovvero l’insieme di relazioni che intercorrono tra tutti i soggetti, gli strumenti e i canali da cui e attraverso cui si genera e viene trasmessa l’informazione.
Ogni interazione fra ecosistemi è accompagnata da un enorme carico di informazioni variamente codificate, dalle quali dipendono la salute e gli equilibri dell’intera totalità vivente. Perciò l’ecologia dell’informazione e l’ecologia “reale” sono anche intrinsecamente legate: nel momento in cui si comincia a preservare l’una, producendo una comunicazione di qualità, che aiuti le persone a uscire dalle proprie bolle autoreferenziali e a prendersi cura delle proprie relazioni e della complessità del mondo, si finirà per far prosperare anche l’altra.
«Non possiamo affrontare un problema come il cambiamento climatico senza riformare il modo in cui le piattaforme tecnologiche organizzano e influenzano la nostra realtà e la nostra capacità di agire», sostiene Tristan Harris. Per farlo è necessario trasformare il modello di business che sta alla base dell’economia digitale, rendendolo un modello circolare attraverso cui la creatività e la passione che le persone infondono nella produzione e nella condivisione di contenuti digitali possa essere restituita sotto forma di rinnovate e più sostenibili relazioni con gli altri e con la natura. Si tratta di sostituire gli algoritmi fondati soltanto sulle metriche di engagement(click, tempo di utilizzo, utenti giornalieri attivi…) con nuovi algoritmi, disegnati deliberatamente per arricchire un mondo di valori (salute, benessere, divertimento, creatività, produttività, cura) che richiedono anche un altro tipo di metriche per essere misurati.
UN MONDO DI ALTERNATIVE
Per mostrare all’industria dell’informazione un primo approccio alternativo a sostegno della lotta al cambiamento climatico, il podcast del CHT, “Your Undivided Attention”, ha di recente ospitato Christiana Figueres, figura predominante nelle negoziazioni che hanno portato agli Accordi di Parigi. «Che cosa succederebbe se Facebook, Amazon, LinkedIn e Google mettessero l’azione collettiva per il clima al primo posto della propria gerarchia di valori?» Dalla conversazione che è scaturita da questo interrogativo si possono estrapolare alcuni semplici esempi, capaci di stimolare la creatività.
Facebook, per dirne una, potrebbe impegnarsi nella promozione di gruppi che mettano in contatto le comunità più capaci di generare un impatto ambientale e sociale con chi si sente impotente di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici. Oppure potrebbe introdurre una funzione che permetta agli utenti di segnalare e mappare reali situazioni di emergenza climatica o ambientale, così come anche buone pratiche socio-ambientali, allo stesso modo in cui oggi si può segnalare di essere al sicuro durante un disastro naturale o un attentato.
Google Maps potrebbe implementare una versione della propria mappa che mostri l’innalzamento del livello del mare tra dieci o vent’anni, nel caso in cui non raggiungessimo gli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi. Ma potrebbe anche assoldare artisti e scienziati capaci di rappresentare nelle mappe altri mondi possibili, aiutandoci a visualizzare i futuri sostenibili che possono ancora prospettarsi. LinkedIn potrebbe cominciare esigendo dalle aziende informazioni accurate sul punto in cui si trovano sul percorso di riduzione delle proprie emissioni di gas serra entro il 2050, incentivando pratiche di mutuo supporto. Amazon potrebbe mostrare, per esempio, chi nel vicinato ha già il prodotto che si sta per comprare, in modo da poterlo chiedere in prestito invece di acquistarlo di nuovo.
Ovviamente sono solo piccole idee, utili per iniziare un percorso, oltre che vere e proprie sfide da integrare nei modelli di business di queste aziende. D’altro canto, tantissimo potrebbe essere fatto da chi controlla ciò che i nostri dispositivi elettronici possono mostrarci.
Lasciarsi affascinare da ciò che ci rende umani e onorare le vulnerabilità degli utenti, mettendo l’etica oltre che la psicologia al centro del lavoro dei web designer, sarebbe già un importante primo passo. Si potrebbe usare la tecnologia per immaginare il futuro invece che per cristallizzare il presente, aiutando le persone a focalizzare la loro attenzione sulla miriade di alternative che potrebbero contribuire a un vero benessere sociale ed ecologico. Spingendole così ad alzare lo sguardo dallo schermo e a realizzarle insieme.
Fonte: duegradi