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In Transizione verso un mondo migliore

Rob Hopkins

La storia di un nuovo modello sociale che potrebbe cambiare nella pratica la vita di tutti noi nasce quasi per caso in una cittadina irlandese una decina di anni fa. Il movimento della Transizione che oggi conta migliaia di gruppi in tutto il mondo e 28 Stati con un coordinamento nazionale, matura dalle idee dell’ambientalista ed esperto di permacultura Rob Hopkins a partire da un esperimento realizzato assieme agli studenti del Kinsale Further Education College.

Il punto di partenza è vedere come un’opportunità, piuttosto che una minaccia, la riduzione della dipendenza di una comunità dalle energie fossili, riprogettando il futuro basandosi su risorse locali e flessibilità ed immaginando un posto migliore in cui vivere rispetto all’epoca di consumo alienante basato sull’avidità, sulla guerra e sul mito di crescita infinita. Il progetto, ulteriormente approfondito, è stato poi presentato al comune di Kinsale che ha adottato il piano iniziando a lavorare alla propria indipendenza energetica.

Per capire l’evoluzione italiana del fenomeno abbiamo chiesto a Cristiano Bottone, responsabile di Transition Italia, di spiegarci i progetti in corso: «Potrei raccontarvi dell’unica scuola in Italia in CasaClima gold che ad esempio non ha il tubo del gas: è bello da dire ma la verità è che quello che c’è di importante è il come è successo, che è una cosa molto complicata da spiegare. Con un progetto di massima già fatto siamo intervenuti e l’abbiamo trasformato in un progetto di altro tipo, ma quello che importa è sempre il come ci siamo arrivati, fatto di meccanismi relazionali, di come hai affrontato il problema e del perché tutti sono arrivati a vedere la scuola come una cosa completamente diversa ed è un processo che vale per tutto ciò che facciamo». Dunque il risultato è buono solo se il percorso è stato virtuoso e vale per la scuola, i pannelli solari, i cappotti delle abitazioni, dal piccolo al grande fino all’intervenire in processi più ampi ed istituzionali come stanno facendo adesso in Emilia Romagna dove «andiamo a modificare proprio le politiche di fondo che si adottano nella gestione delle amministrazioni. Vale dal balcone di casa della signora Maria che decide che in un piccolo spazio vale la pena di creare un piccolo orto, che ha grossa incidenza sulla sua felicità, fino a quando cerchi di influenzare le politiche generali di un territorio arrivando ad inserire la resilienza nello statuto della città metropolitana di Bologna e quindi un concetto che in qualche modo va ad influire culturalmente su milioni di persone. In realtà dietro, come logica, c’è più o meno lo stesso discorso del basilico sul balcone».

«In Italia», continua Cristiano, «siamo partiti dal basso come nel resto del mondo, ma, diversamente da altri Paesi europei abbiamo avuto una sorta di necessità obbligatoria di cambiare le cose anche ai piani più alti per il semplice fatto che alle persone verrebbe voglia di fare un sacco di cose per poi scoprire che sono magari vietate dalla legge o sanzionabili. Il rischio era quello che cose importanti non sarebbero potute succedere ritrovandosi magari con dei begli esperimenti che rimangono locali, ma i problemi che dobbiamo risolvere hanno un impatto globale e fin dall’inizio abbiamo iniziato a lavorare con le istituzioni trovando stranamente sempre persone molto interessate a provare strade nuove».

Cristiano Bottone
Cristiano Bottone

Quando gli abbiamo chiesto di provare a darci dei numeri sui gruppi in Italia Cristiano ci ha spiegato che non è una cosa così semplice. «Tu semini dei semi che non sai se attecchiscono o meno. Non diamo tessere alla gente per contare quanti siamo, noi produciamo un sacco di stimoli ed è complicatissimo poi misurare i progetti che nascono. Dire quanti gruppi ci sono non è un sistema di misura perché possono esserci moltissimi gruppi che combinano poco, o pochissime persone che producono cambiamenti spaventosi. Poi possiamo anche dire che in Italia ci sono circa 30 gruppi di Transizione, ma è un dato che, nel tentativo di capire cosa stia succedendo, dice veramente poco. Il meccanismo è inclusivo e oltre alle istituzioni coinvolge altri spin-off che nascono per costruire nuovi sistemi per distribuire l’energia e mettere toppe all’economia attuale, in un meccanismo di scambio e fusione di conoscenze». La nostra chiacchierata è poi proseguita con Rob Hopkins, il fondatore del movimento, che punta molto sul concetto di resilienza e cioè la capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti esterni.

Come spiegheresti che cos’è il movimento della Transizione ad una persona che non ne ha mai sentito parlare prima?
Gli direi che la Transizione è un movimento che coinvolge le persone in tutto il mondo re-immaginando e ricostruendo i posti dove vivono cercando di farli diventare più resilienti, meno isolati, più connessi e più votati all’imprenditorialità, più felici e più salubri: insomma, dei posti più piacevoli in cui vivere. 

Come è nata questa idea?
Abbiamo iniziato circa 10 anni fa come fosse un esperimento, e continuiamo a credere che lo sia, nel quale noi invitiamo le persone, dovunque esse siano nel mondo in un paese, in una città, in un villaggio, in un’università o un’azienda, a raggruppare un po’ di persone e iniziare questo processo. Noi offriamo supporto, aiuto e connessioni e quello che solitamente diciamo è che nessuno ha la formula per sapere come fare, perché è la prima volta nella storia che accade ma se abbastanza persone in posti diversi sperimentano e condividono le loro esperienze avremo un insieme di persone disposte ad imparare e quindi è possibile che risolviamo questo problema.

Può funzionare solo in piccole realtà o anche in una grande città?
Può perfettamente funzionare in una grande città ma su piccola scala. Ad esempio a Londra lavorano almeno 50 gruppi di Transizione. Quindi Milano sarebbe troppo impegnativa da gestire per un gruppo, ma creando tanti diversi gruppi e lavorando a contatto con il proprio vicinato, si possono fare grandi cose in tempi rapidi ispirando le persone vicine a noi e diffondendo quindi il progetto velocemente.

Come vedi la situazione italiana?
Quando avevo 20 anni ho vissuto in Toscana e adoro l’Italia. Penso che ci siano diversi gruppi e sono stato a Ferrara, a Monteveglio e a Bologna. Monteveglio è stato il primo gruppo in Italia e stanno facendo un lavoro incredibile così come a Bologna e dintorni. Sono rimasto impressionato dalle persone e dalle autorità cittadine coinvolte in questi processi e ho parlato con persone di 5 o 6 scuole diverse, molto brillanti, positive ed ispirate.

A Monteveglio l'orto a scuola con i bambini
A Monteveglio l’orto a scuola con i bambini

La canapa può essere importante per il movimento della Transizione?
Io penso che uno dei punti centrali della Transizione sia quello di riportare le economie al centro dei luoghi in cui viviamo. Molto di ciò che consumiamo può essere prodotto vicino a noi e questo è un punto chiave di una nuova economia. La canapa può giocare un ruolo importante in alimentazione, per la carta e come materiale da costruzione: l’idea che possiamo costruire case a partire da materiali coltivati localmente è un elemento che trovo davvero interessante per realizzare edifici molto più belli di quelli costruiti fino ad oggi. La canapa ha il potenziale di creare edifici più salubri e di riconnettere le terre che circondano i posti in cui viviamo con la comunità che partecipa attivamente all’economia locale. Quindi può avere un ruolo centrale nella bio-edilizia e in più in generale in questa new-economy.

Un punto chiave è dunque quello di avere attività produttive più vicine ai centri abitati. Quali sono gli altri punti fondanti del movimento?

Uno è quello che chiamiamo REconomy, che consiste nell’aiutare i gruppi di Transizione a capire che dobbiamo cambiare l’idea che debbano fare tutto come volontari per arrivare alla necessità di far partire nuovi business e nuovi modelli di sostentamento. Abbiamo bisogno di creare noi stessi la new-economy e quindi REconomy è un grande punto forza in quello che facciamo per dare ai gruppi la confidenza e l’ispirazione per trasformare alcune delle loro idee in nuove aziende. Un altro elemento consiste nel dare ai gruppi gli strumenti e le risorse di cui hanno bisogno per essere sostenibili a lungo termine. Perché spesso gli attivisti partono a razzo e fanno molte cose senza sosta fino a che diventano esausti. Poi, dopo una pausa, si ricomincia di nuovo. Ed è una cosa spiacevole e pericolosa. In Transition diamo molto supporto per fare in modo che si risolvano i conflitti e si possa gestire lo stress così da lavorare in maniera costante e continuativa.
Quindi economia locale, gruppi che sono in grado di sostenersi, creazione nuovi modi di sostentamento facendo in modo che le comunità posseggano i beni, gli edifici, le terre e diventino loro stessi la compagnia energetica di cui hanno bisogno, i costruttori che servono e gestiscano il sistema alimentare. Questo sta già accadendo in molti parti del mondo ed è davvero eccitante.

Com’è la tua giornata quotidiana?
La mattina controllo le mie cose, porto i ragazzi a scuola e vado a lavoro. Di solito lavoro nel Transition Network che è l’organizzazione che abbiamo creato per supportare i progetti che stanno nascendo in tutto il mondo. Sono anche il direttore di un birrificio che abbiamo creato con birre artigianali lavorate localmente, che è una cosa di cui sono orgoglioso e dirigo anche un progetto per portare le comunità a riutilizzare le fabbriche abbandonate all’interno delle città. Poi mangio acquistando il pranzo da negozi indipendenti che vendono prodotti locali. Pedalo fino a casa, do da mangiare ai bambini e continuo così la mia giornata.

L’impatto che la Transizione può avere sulla crisi economica attuale dipende dal singolo cittadino o deve essere una cosa più organizzata?
Per realizzare i principi della Transizione non c’è bisogno che collaborino tutti, basta un forte gruppo di persone in grado di spendere tempo ed energie che può davvero fare la differenza. Se aspettiamo che tutti nella comunità siano coinvolti, non succederà mai nulla. A Parigi a dicembre per Cop 21 i leader mondiali hanno firmato un accordo dicendo che la temperatura alla superficie della Terra non deve aumentare oltre i 2 gradi centigradi, se possibile non oltre 1.5 gradi, ma non hanno nessuna idea di come fare. L’accordo che hanno firmato dipende da qualcuno che nei prossimi 10 anni inventi una macchina capace di succhiare CO2 dall’atmosfera. Ma una macchina così ad oggi non esiste e quindi mi pare una soluzione ridicola.

Ciò che di importante fa invece la Transizione è mostrare come noi possiamo creare un mondo più vivibile e a dimensione locale; siamo già in grado di dimostrare che le comunità lo possono fare e che quelle che lo fanno sono più felici e più in salute grazie ai risultati ottenuti. In UK i sociologhi dicono che soffriamo di un fenomeno chiamato “solitudine epidemica” e mentre le politiche del governo sono basate solo su come far crescere l’economia, che deve crescere sempre, la solitudine cresce insieme a lei. Con la Transizione noi vediamo che l’economia non deve crescere per forza e che se tutto è riportato in una dimensione locale, la gente è più connessa. A Londra puoi fare la spesa per tutta la famiglia senza avere una conversazione con nessuno e in un mondo così è facile sentirsi soli. La Transizione non è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma è sicuramente molto importante per mostrare che il futuro può essere meglio di così ed io credo che questa sia una delle cose più importanti che abbiamo bisogno di sentirci dire oggi.



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