Transizione: il sistema si cambia dal basso
Monteveglio è un paese di poco più di cinquemila anime arroccato sugli Appennini poco lontano da Bologna. Uno dei tanti borghi antichi italiani che raccontano di un passato glorioso e un presente in bilico tra lo spopolamento e la riscoperta dei valori rurali. Qui la seconda tra queste vie è decisamente in vantaggio, tanto che negli ultimi anni i suoi abitanti sono addirittura aumentati. Nonostante il fatto che Monteveglio non sia un paese come gli altri, anzi forse proprio grazie alla sua “diversità”. A Monteveglio, infatti, si organizzano serate e cineforum per sensibilizzare la cittadinanza ad adottare stili di vita sostenibili, si coltivano orti sinergici per crescere cibi naturali senza compromettere la natura, sempre più case sono alimentate grazie a mini impianti eolici e solari sostenuti da un gruppo di acquisto collettivo. I bambini la mattina vanno a scuola con il “piedibus”, cioè tenendosi in fila con una fune alla presenza di un adulto, mentre gli anziani contribuiscono alla crescita collettiva partecipando alla “banca della memoria”, un archivio che racchiude interviste e testimonianze dei vecchi del paese, per non permettere che i loro bagagli di conoscenze vadano persi.
Monteveglio fa parte di un movimento che in tutto il mondo raccoglie ormai duemila città, una trentina delle quali in Italia: sono le Transition Towns e cioè le città in transizione. Un’esperienza nata appena una decina di anni fa nella cittadina irlandese di Kinsale, a partire dalle idee di un coraggioso e visionario insegnante di nome Rob Hopkins, convinto che la crisi ecologica e il progressivo esaurimento del petrolio potessero trasformarsi in un’opportunità per un nuovo rinascimento collettivo. Hopkins decise di partire dai suoi alunni, chiedendo loro di lavorare ad un progetto collettivo per immaginare la città di Kinsale in un futuro sostenibile, senza petrolio. Le proposte furono così entusiasmanti che cominciò a coinvolgere un numero crescente di cittadini per mettere in pratica questa svolta a partire da piccoli progetti attuabili dal basso. Il seme di questo progetto si è poi diffuso per il mondo, attraverso il movimento della Transizione. Ma procediamo con ordine: di cosa stiamo parlando?
Stare fermi aspettando che altri decidano o prendere in mano il futuro? Il primo passo per comprendere cosa sia la transizione consiste nel mettere a fuoco il punto di sviluppo nel quale tutti noi ci troviamo. L’economia del mondo industrializzato si è sviluppata negli ultimi 150 anni basandosi sullo sfruttamento delle fonti fossili, principalmente petrolio e carbone. Più in generale il nostro modello è basato su di un assunto paradossale e inesatto, quello secondo cui le fonti energetiche fossili siano disponibili a volontà, nonché trascurando del tutto gli impatti ambientali di questo modello. È evidente a tutti come la nostra generazione si trovi, volente o nolente, alla fine di questa utopia sviluppista che ha governato il pianeta. Le risorse energetiche sono in via di esaurimento e per raccogliere le ultime gocce di petrolio si stanno attuando forme di sfruttamento del suolo sempre più aggressive e pericolose, mentre il surriscaldamento globale è testimone diretto del baratro che attende la nostra specie se non ci decideremo al più presto per un deciso e rapido cambio di marcia. Di fronte a questo scenario desolante ci sono due possibilità: o si sta fermi ad aspettare che qualcuno più potente di noi decida cosa fare, o ci si rimbocca le maniche per avviare il cambiamento nell’unico modo possibile, cioè costruendo una nuova società cominciando a ridiscuterne le stesse fondamenta. La Transizione, lo avrete intuito, opta per questa seconda scelta.

La resilienza come concetto chiave per un cambiamento necessario. Questa alternativa in marcia si basa su di un concetto chiave, quello di resilienza. Un concetto non molto conosciuto, preso in prestito dalle scienze naturali. In biologia, infatti, la resilienza è la capacità di un organismo vivente di sapersi adattare ai cambiamenti dell’habitat, anche improvvisi e traumatici, senza soccombere ed auto-riparandosi. È una sorta di flessibilità rispetto alle sollecitazioni, che rappresenta la capacità di superare i momenti di fragilità. La società industriale è caratterizzata da un bassissimo livello di resilienza. Viviamo in un costante stato di dipendenza da sistemi e modelli sui quali non abbiamo alcun controllo. All’interno delle nostre città consumiamo cibo e prodotti che percorrono migliaia di chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole, illuminiamo le case utilizzando energia prodotta da mega centrali che con un black-out possono lasciare al buio migliaia di famiglie, indossiamo vestiti che non sappiamo neanche da dove provengano. In pratica, ogni prodotto si basa su catene di produzione e distribuzione estremamente lunghe, complesse e delicate. Un modello irrazionale, la cui sopravvivenza è garantita dall’abbondanza di petrolio e di energie fossili a buon mercato, che rendono possibile l’idea di perseguire uno sviluppo economico perpetuo, basato sullo sfruttamento di queste risorse e sul trasporto di enormi quantità di merci verso i paesi ricchi. È facile immaginare la fragilità di fondo di questo sistema: basta un’alluvione per mettere in ginocchio intere città cresciute cementando senza logica attorno ai corsi d’acqua, mentre se si chiudessero i rubinetti del petrolio l’intera civiltà si paralizzerebbe. Gli shock provocati dal surriscaldamento globale e dallo sfruttamento iniquo delle risorse sono sempre più frequenti e destinati ad aumentare, mentre la nostra società non è in grado di assorbirli. Questo è il contrario della resilienza.
L’alternativa in marcia contro un modello di sviluppo al collasso. L’idea delle Transition Town è semplice: si tratta di creare le condizioni perché una comunità locale possa attivarsi per rispondere alle crisi in corso riorganizzando la propria struttura produttiva, relazionale ed economica. Una svolta che mai come ora, anche grazie alle nuove tecnologie, era stata così attuabile e a portata di mano. Gli esempi si sprecano. A Samso, un’isola della Danimarca, i cittadini si sono riuniti in una cooperativa e nel giro di soli sei anni hanno completato questo processo di cambiamento: un parco di turbine eoliche rifornisce la città di energia, mentre ogni casa riveste il proprio tetto di muschio per evitare la dispersione di calore e istalla dei pannelli solari per autoprodurre parte dell’energia necessaria. Se nel 1997 l’isola produceva ogni anno 11 milioni di tonnellate di CO2, oggi queste sono crollate a 4,4 milioni, mentre anche la vita dei suoi cittadini è migliorata, attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro verdi. Anche in Italia gli esempi non mancano. La valle del Primiero, in Trentino Alto Adige, è la prima valle montana alimentata al cento per cento senza petrolio, un processo anche in questo caso iniziato dai cittadini che hanno formato comitati e convinto i Comuni della valle ad unirsi in un progetto che ha portato alla costruzione di diverse piccole centrali idroelettriche di proprietà pubblica, che oggi garantiscono l’energia a tutte le abitazioni e le aziende presenti sul territorio. Mentre nel resto del mondo si annaspa tra inquinamento e dipendenza energetica, in questa valle l’aria non era così pulita da decenni e i cittadini pagano le bollette più basse d’Italia.

Piccoli progetti dal basso, inaspettatamente efficaci e rivoluzionari. Ma la questione energetica non è la sola ad essere investita dalla novità positiva e contagiosa della transizione. A trarre i maggiori benefici sono forse le relazioni umane. Laddove questi progetti sono in marcia, infatti, sono i cittadini e le loro piccole azioni quotidiane a fare davvero la differenza. A farsi carico del cambiamento deve infatti essere la comunità, non i politici. Per questo a Monteveglio hanno cominciato dalle riunioni pubbliche e dagli incontri con i vicini di casa: la resilienza parte dal locale e dalla costruzione di piccoli progetti che se portati avanti da più persone si rivelano inaspettatamente semplici, efficaci e razionali. I gruppi di transizione lavorano innanzitutto per mettere in piedi strutture alternative, in grado di superare e rendere superflue quelle dominanti. Per esempio creando reti per insegnare agli altri che è possibile autoprodurre in casa molti dei prodotti che generalmente acquistiamo, o che tramite i contadini della zona ci si può rifornire comodamente e a buon prezzo di prodotti sani e locali. Pratiche che consentono di rafforzare un nuovo circuito economico locale e sostenibile, dando al contempo un calcio all’inquinamento e ad un modello di consumo ingiusto e distruttivo. La transizione trae così la propria energia dal basso, attraverso la costruzione di una rete sociale forte e solidale tra gli abitanti. Un antidoto insieme alla distruzione del pianeta e alla solitudine delle città.
Perché transizione fa rima con democrazia. Alzi la mano chi ha mai pensato che un gruppo di persone possa cambiare le cose, influenzare le scelte di chi governa le città semplicemente mostrando una nuova via efficace e possibile. La verità è che siamo quotidianamente bombardati da un apparato mediatico che ci spinge a delegare tutto il nostro potere ad altri, isolandoci nelle nostre case e spingendoci ad aver diffidenza anche dei nostri vicini di casa. Le storie delle città in transizione ci raccontano un’altra storia: incredibile proprio perché reale. Al punto che proprio da queste esperienze arriva forse l’insegnamento più banale ed allo stesso tempo rivoluzionario: la democrazia non si esaurisce mettendo una scheda dentro l’urna ogni cinque anni, ma è una pratica quotidiana che si può conquistare dal basso, spezzando le dinamiche peggiori della società e portando ogni giorno i palazzi più vicini alle esigenze collettive. Costruire reti di acquisto di prodotti agricoli dai produttori di zona, infatti, non significa solo mettere cibo più sano sulla tavola, ma comporta la messa in discussione pratica del modello della grande distribuzione che si basa sulla creazione di un profitto per pochi grazie allo sfruttamento di lavoratori, contadini e risorse naturali, allo stesso modo, ogni piccola cooperativa per la produzione di energia sostenibile contribuisce a dare un colpo che, sommato agli altri, un giorno, forse meno lontano di ciò che pensiamo, contribuirà a distruggere il potere delle compagnie petrolifere che controllando l’energia influenzano la politica e le nostre vite. E anche i governi si possono spingere, o costringere, ad ascoltare maggiormente la voce dei cittadini. L’esempio, infatti, può essere contagioso, a partire dalle comunità locali.

Potrebbe sembrare una visione troppo ottimistica, ma forse non lo è. Per parlarne torniamo laddove questa storia l’abbiamo cominciata, a Monteveglio. A forza di costruire alternative reali i suoi cittadini hanno infatti convinto la giunta comunale ad approvare una delibera che eleva il concetto di Transizione a vera e propria strategia per lo sviluppo futuro della città. La delibera ha fatto il giro del mondo ed è diventata famosa come la “carta di Monteveglio”. Al suo interno il governo cittadino dichiara ufficialmente Monteveglio una “città in Transizione” e stabilisce che la resilienza, il rispetto del suolo, l’abbandono delle energie fossili e il supporto del Comune alle iniziative ed alle cooperative fondate e liberamente dirette dai cittadini rappresentano la base per l’edificazione della città del futuro. Era il 2009 e da allora sempre più persone e sempre più città sono in Transizione. Basterà per cambiare le cose? Non possiamo esserne certi, ma tentare è l’unica via.