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Il tatuaggio nella storia tra rito, moda e pregiudizio

Img1_Tattoo samoano del 1895_foto di Thomas Andrew

Nel 1991 sulle montagne delle Alpi Venoste, a pochi passi dal confine tra Italia e Austria, viene scoperto lo scheletro, perfettamente conservato dai ghiacci, di un uomo vissuto circa 5300 anni fa. Un particolare di quell’uomo, poi chiamato Oetzi, colpisce gli studiosi: il suo scheletro è disseminato dai segni di ben 57 tatuaggi. Ad oggi Oetzi è il più antico essere umano tatuato di cui si abbia prova storica.

Sulla schiena e sulle gambe, Oetzi aveva punti, linee e croci incise con tagli sottili eseguiti praticando delle piccole incisioni sulla pelle ricoperte poi con carbone vegetale per fissare il disegno. Questi tatuaggi, hanno stabilito gli studiosi, non avevano una valenza estetica, ma erano uno strumento terapeutico per lenire i dolori causati dall’artrite. Una sorta di agopuntura ante litteram.

Proprio nella credenza del loro valore terapeutico va ritrovata una delle ragioni ancestrali del tatuaggio. Ne abbiamo prove da tutto il mondo. Se gli uomini preistorici puntavano, come nel caso di Oetzi, ad incidere l’osso dolorante, i berberi del nord Africa hanno utilizzato, ed in parte utilizzano tutt’oggi, il tatuaggio per contrastare un’ampia lista di problemi fisici, come il mal di testa, per guarire il quale incidono un cerchio per delimitare l’area malata e poi una croce per guarirla. Rimedi che visti con l’occhio contemporaneo potrebbero far sorridere, ma ritenuti per lungo tempo il miglior ritrovato di medicina empirica per agire laddove le erbe officinali non raggiungevano lo scopo.

2016-07-30 11.03.19 amMa, per gli antichi, il tatuaggio non serviva solo a guarire dai dolori o a tenere lontani gli spiriti maligni, come facevano gli egiziani che si disegnavano un serpente per proteggersi dalle ire del dio sole. Il tatuaggio si utilizzava sia come simbolo di gruppo, sia per fissare e mostrare il racconto della propria vita, per simboleggiare i momenti di passaggio dell’esistenza. Viaggiatori ed etnologi ci hanno lasciato numerosi esempi dai quattro angoli del mondo. In alcune tribù dello Zaire le giovani si tatuavano una piuma di gallina sul polpaccio per comunicare che erano in età da matrimonio, i guerrieri Turkana del Kenya, invece, ogni volta che uccidevano un nemico in battaglia si tatuavano una spina sul braccio, mentre i Dinka del Sudan si incidevano delle corna di toro sulla fronte come forma di devozione al bestiame. Dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda, il passaggio di ogni Maori all’età adulta è segnato dalla realizzazione del “moko”, il celebre tatuaggio facciale. Un’abitudine che colpì a tal punto i colonizzatori inglesi che per decenni si sviluppò nella madre patria il macabro commercio dei decorati crani Maori. Pratica tanto diffusa da costringere il governo inglese ad approvare, nel 1831, un’apposita legge per dichiarare illegale l’importazione di teste umane.

Lungi dall’essere nata come una moda o un gesto di ribellione delle controculture giovanili occidentali, insomma, la concezione del corpo come una pagina bianca sulla quale scrivere la propria vita è antica quanto il mondo. In questo panorama globale della decorazione corporea non mancava nemmeno l’antica Roma, almeno fino a quando l’imperatore Costantino dopo essersi convertito al cristianesimo non si convinse che il Signore non approvava questa pratica che deturpava il corpo che era stato fatto «a immagine e somiglianza di Dio». Era il 325 d.C. e da allora i tatuaggi vennero vietati in tutto il territorio dell’Impero. Il tatuaggio divenne per secoli, almeno in questa parte del mondo, non più ornamento da mostrare con orgoglio ma stigma da infliggere ai reietti della società. Agli schiavi romani venivano infatti segnate le iniziali del proprio padrone, mentre i ladri venivano marchiati a fuoco sulla fronte.

2016-07-30 11.06.19 amAl di sotto del Mediterraneo anche i musulmani vietarono il tatuaggio, contribuendo così a portare l’oscurità della proibizione in tutti i territori del vecchio mondo. Ma non fecero i conti con il proverbiale ingegno dei loro popoli. Gli interpreti del Corano infatti stabilirono che era vietata ogni forma permanente di modifica del corpo, ma nulla poterono quando i loro sudditi si inventarono la modificazione temporanea con le tinture a base di henné. In tutti i territori arabi e fino all’India si diffuse così l’abitudine di decorare il corpo – principalmente quello femminile – nelle occasioni importanti a cominciare dal matrimonio. La proibizione come spesso accade si rivelò un boomerang per il potere costituito, che anziché rendere anonimi e disciplinati i corpi dei sudditi ne liberò la creatività.

Nella civile Europa la repressione e lo stigma verso ogni modificazione corporea continuò ed anzi peggiorò quando ad affiancare l’oscurantismo cattolico arrivò la scienza positivista, con la sua pretesa di rendere ogni tratto culturale misurabile e oggettivo. Siamo nel 1876 quando Cesare Lombroso pubblica il saggio “L’uomo delinquente”, nel quale mette in stretta correlazione il tatuaggio e la degenerazione morale: il disegno sul corpo viene inserito tra quelle anomalie anatomiche in grado di far riconoscere il delinquente nato. Secondo lo studioso italiano l’atto di tatuarsi è una prerogativa dei delinquenti ed è sintomo di una regressione allo stato primitivo.

Da questo abisso oscurantista la pratica della decorazione corporale in occidente si riprese solo negli anni ’70, quando molte delle controculture giovanili, come hippies, punk e le nascenti gang metropolitane, ricominciarono a tatuare il corpo come gesto di sfida ad un sistema di regole e valori dal quale non si sentivano rappresentati. Ancora una volta il tatuaggio non tanto come decorazione, ma come mezzo di identificazione simbolica, capace di far riconoscere con uno sguardo persone che si sentono parte di uno stesso squarcio di universo. A partire da queste avanguardie il tatuaggio torna pian piano ad essere tollerato, poi accettato, poi di moda, fino ai giorni nostri in cui è nuovamente del tutto normale. Strumento per segnare sulla propria pelle rappresentazioni di eventi o persone importanti o più spesso semplice decorazione. Il corpo come pagina bianca, da abbellire e riempire di senso con i colori.

Ma cosa è rimasto oggi della logica ancestrale di questa pratica? I tatuaggi antichi erano parte di un universo collettivo, dove i segni sul corpo erano nella gran parte dei casi codici condivisi che servivano per sancire delle iniziazioni, come l’ingresso del mondo adulto, o un’appartenenza. Oggi molto spesso il tattoo non è che una questione privata, spesso slegata da ogni tipo di simbologia. Ma nel presente come nel passato il corpo è visto ancora come un foglio da riempire con le vicende della propria vita e la scrittura corporea diviene uno strumento per scrivere la propria vicenda, i propri legami, o semplicemente per decorarsi con segni che, anche solo per se stessi, hanno un senso. Lontano da ogni ortodossia religiosa o morale che, ancora oggi, vorrebbe il corpo come qualcosa di inerte ed assoggettato. In questo senso forse non troppo è cambiato.

TG DV


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