Sul piano giuridico la coltivazione non deve essere figlia di un dio minore rispetto alla detenzione di derivati della cannabis
Non voglio iniziare polemiche inutili, tanto la posizione di San Patrignano che crea un’indebita e infondata commistione fra sostanze totalmente differenti tra loro, è ferma da sempre e non ammette confronti di sorta. Si pensi solo all’intervista che poco tempo fa il TG1 ha diffuso e che vedeva protagonista una giovane ospite della comunità che raccontava il suo calvario attraverso le droghe sintetiche (ecstasy e cocaina), non prima di precisare con studiata attenzione che l’accesso alle droghe pesanti era stato determinato in via esclusiva dall’essersi fatta le canne a 12 anni. Tesi sempre cara ai proibizionisti, nonostante sia stata smentita da tempo.
Desidero, invece, prendere spunto da questo per ribadire la necessità che qualsiasi legge si intenda proporre, è necessario porre il problema della coltivazione (sia per fini terapeutici, che per fini non terapeutici) come volano o nodo centrale imprescindibile. Attorno alla soluzione legale del tema coltivazione deve ruotare qualsiasi altra scelta di desanzionalizzazione o di legalizzazione. Per questo credo sia necessario proporre tesi normative che permettano alla coltivazione di uscire dal cono d’ombra in cui essa si trova rispetto alla detenzione. Ribadisco, oltre alla desanzionalizzazione della coltivazione individuale e della coltivazione che possa avvenire nel contesto organizzato di un CSC, una previsione che estenda il concetto di acquisto di gruppo ed il relativo meccanismo esimente anche a forme di coltivazione di gruppo per un numero limitato di persone ed un numero limitato di piante. Si tratterebbe di un’ipotesi seria, rigorosa che nasce dalla mia quotidiana esperienza forense.
Mi sono imbattuto sovente in 2 o 3 persone (conviventi, parenti o coabitanti) che coltivano insieme qualche pianta (max 5) e che, pertanto, operano in comunione d’intenti e di apporti per un fine di consumo esclusivamente personale. Si tratta di un fenomeno che non può essere snobbato o dimenticato. Una soluzione del tipo che mi permetto di proporre permetterebbe di prevenire molti procedimenti che dimostrano come l’intenzione di queste persone, che coltivano, sia in linea con lo spirito della legge e cioè non diffondere sostanze sul mercato, ma anzi, togliere potenziali acquirenti all’offerta criminale di droghe.
Credo, inoltre, che il profilo terapeutico possa venire esaltato da una simile ipotesi, che lo valorizzerebbe. Si deve, peraltro, tenere conto che la recente proposta di legge C. 1373, mirante a disciplinare la canapa industriale dimostra come il legislatore non sia aggiornato, in quanto l’art. 9 di tale testo – che nelle intenzioni dovrebbe modificare l’art. 14 comma 1 lett. a) n. 6 del dpr 309/90 – [«la canapa sativa, compresi i prodotti da essa ottenuti, proveniente da coltivazioni con una percentuale di tetraidrocannabinoli superiore all’1%, i loro analoghi naturali, le sostanze ottenute per sintesi o per semi sintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto farmaco-tossicologico»], introduce modifiche che si intendono apportare al testo precedente, che non pare tengano nel debito conto del testo dell’art. 14 così come modificato dapprima dalla Corte costituzionale, con sentenza 12-25 febbraio 2014, n. 32 (Gazz. Uff. 5 marzo 2014, n. 11 – Prima serie speciale), che ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 4-vicies ter, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 né dell’ulteriore sostituzione intervenuta tramite l’art. 1, comma 3, D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79. Quindi esistono rischi anche sotto altri fronti per quanto riguarda l’uso terapeutico e la coltivazione di cannabis a tale fine.