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Sua maestà il THC

Un viaggio per scoprire le proprietà di una delle molecole più affascinanti, complesse e discusse tra tutte quelle presenti in natura

Sua maestà il THCNel 1964 in Israele avreste potuto incontrare un uomo molto composto, con uno sguardo pieno d’umanità ed una ciocca di capelli ribelli, che viaggiava sull’autobus pubblico trasportando in una borsa 5 chilogrammi di hashish libanese di prima qualità.

Hashish che aveva ottenuto dalla polizia dopo l’intercessione del direttore dell’istituto di ricerca Weizmann, dove al tempo lavorava. Probabilmente la prima e unica persona nella storia a prendere 5 chili di fumo dalla polizia e uscire senza avere le manette ai polsi. Nel viaggio di ritorno verso il laboratorio, dopo una ventina di minuti passati sul pullman, i passeggeri intorno a lui iniziarono a fare commenti sullo strano odore emanato dalla sua valigia. “Ci credo”; racconta nel documentario The Scientist scritto e realizzato da Zach Klein, “viaggiavo con 5 chili hashish!”.

L’IDENTIFICAZIONE DEL THC

Era il dottor Raphael Mechoulam, diretto all’Istituto Weitzmann di Rehovot, che si apprestava di lì a poco ad isolare e sintetizzare per la prima volta nella storia il THC, l’ormai celebre Delta-9-tetraidrocannabinolo, dando il via a tutta una serie di scoperte rimaste in sordina e che oggi si stanno rivelando centrali per svelare molti dei meccanismi di funzionamento del nostro corpo. Vent’anni più tardi Mechoulam ha accertato che il THC interagisce con il sistema di recettori più grande del corpo umano, il sistema endocannabinoide. Ha poi scoperto che il cervello umano produce dei “propri cannabinoidi”. 

Sua maestà il THC«Al primo scoperto abbiamo dato il nome Anandamide che in sanscrito significa “gioia” (il professore, scomparso nel 2023 me lo disse in italiano quando lo intervistai a Gerusalemme per Dolce Vita, nda). Abbiamo fatto un po’ di ricerche ed abbiamo scelto questa parola, perché quando abbiamo scoperto questa sostanza pensavamo che il sistema cannabinoide endogeno avesse a che fare con i sentimenti e la felicità».

Si tratta della scoperta degli endocannabinoidi, sostanze prodotte dal nostro corpo simili a quelle contenute nella cannabis, che si legano ai medesimi recettori del sistema in cui sono coinvolti. È un complesso sistema endogeno di comunicazione tra cellule composto da recettori, endocannabinoidi e le proteine coinvolte nel metabolismo e nel trasporto di questi composti. Prendono il nome dalla pianta di cannabis poiché alcuni fitocannabinoidi in essa presenti, tra cui il THC, mimano gli effetti di quelli prodotti dall’uomo.

Sua maestà il THCTornando invece a quella scoperta, Mechoulam me la raccontò così: «Era risaputo che la morfina fosse stata isolata dall’oppio 150 anni prima e la cocaina dalle foglie di coca circa 100 anni prima, così era strano che un’altra pianta con attività psicoattiva non fosse trattata nella stessa maniera. C’era già stata qualche ricerca sulla cannabis ma i suoi componenti non erano mai stati isolati nella loro forma pura e la sua struttura non era conosciuta. Non era solo un problema chimico, era una questione che andava al di là perché una volta che i componenti fossero stati isolati e la struttura chimica resa nota, i composti sarebbero potuti essere valutati per la loro attività farmacologica. Quindi era molto importante rendere i composti della cannabis disponibili in forma pura. Ad ogni modo, quando noi pubblicammo i risultati, nessuno sembrava essere interessato probabilmente a causa della situazione legale che rendeva molto difficile lavorare con la cannabis nella maggior parte dei Paesi. Lavorare su una sostanza illegale richiede una sicurezza e degli accorgimenti difficili da imporre in un’università. Anche negli Stati Uniti, dove avevo ricevuto una borsa di studio, non c’era interesse perché la cannabis era utilizzata in Sud America, ma non in Nord America. Anni dopo, il figlio di una persona importante, credo fosse il figlio di un senatore, fu beccato a fumare marijuana e voleva sapere se avrebbe perso la testa a causa di questa sostanza e se il suo cervello ne sarebbe stato distrutto. Chiese informazioni all’NIH (il National Health Institute americano, ndr), che però non aveva dati sulla cannabis e quindi si ricordarono del giovane studente originario del Medio Oriente. A quel tempo noi avevamo già isolato il THC e così un po’ dei nuovi lavori scientifici che vennero fatti in America in quel periodo vengono da informazioni che avevamo dato dai nostri laboratori. Quindi, a dirla tutta, all’inizio non c’era nessun interesse per la ricerca sulla cannabis: è arrivato molto dopo».

TRA PROIBIZIONE E GUERRA ALLA DROGA

Siamo a metà degli anni ’60. In tutto il mondo è la stagione delle rivolte all’ordine costituito, dell’amore libero, del rifiuto dell’autorità, del ritorno alla terra e del rifiuto della guerra. Siamo un passo prima di quando Nixon nel 1971 inaugurò la stagione globale di un’altra guerra, quella alla droga, identificandola in pubblico come il nemico numero 1 della nazione, anche se poi in privato si lasciava scappare che «non so nulla di marijuana. So che non è particolarmente pericolosa, in altre parole, e la maggior parte dei ragazzi è a favore della sua legalizzazione. Ma d’altra parte, è il segnale sbagliato in questo momento».

E sono passati circa 30 anni dal Marijuana Tax Act, la legge che vieta la cannabis formalmente per la sua psicoattività – ma in realtà per il fastidio arrecato alle multinazionali di diversi settori per i suoi utilizzi industriali – con la propaganda guidata da Anslinger che diffondeva documentari grotteschi come Reefer Madness, dove la cannabis, conosciuta e usata da gran parte degli americani in medicina e agricoltura, viene rinominata marijuana e incolpata di qualsiasi danno possibile e immaginabile – compresi stupri e omicidi – per spingere l’acceleratore verso la proibizione.

Sono anche gli in cui però, proprio grazie a Mechoulam e al suo gruppo di lavoro, iniziano a essere svelate le proprietà mediche della cannabis, in un cammino di parziale riabilitazione al quale hanno contribuito tanti attivisti, studiosi e ricercatori, come ad esempio Lester Grinspoon, altro gigante della ricerca cannabica che ci ha lasciati pochi anni fa, che nel 1971 pubblicò il suo “Marijuana Reconsidered”.

«Quando cominciai a occuparmi della marijuana nel 1967, non dubitavo che si trattasse di una droga molto nociva che, sfortunatamente, veniva usata da un numero sempre maggiore di giovani incoscienti che non ascoltavano o non potevano capire i moniti sulla sua pericolosità. La mia intenzione era di descrivere scientificamente la natura e il grado di questa pericolosità. Nei tre anni successivi, mentre passavo in rassegna la letteratura scientifica, medica e profana, il mio giudizio cominciò a cambiare. Arrivai a capire che anch’io, come molte altre persone in questo paese, ero stato sottoposto a un lavaggio del cervello. Le mie credenze circa la pericolosità della marijuana avevano scarso fondamento empirico. Quando completai quella ricerca mi convinsi che la cannabis fosse considerevolmente meno nociva del tabacco e dell’alcool, le droghe legali di uso più comune».

Lo scrive proprio il professor Grinspoon, psichiatra e professore emerito dell’Università di Harvard, nell’introduzione di un altro suo libro, “Marijuana, la medicina proibita”, scritto in collaborazione con James B. Balakar e pubblicato anche in Italia (Editori Riuniti, 2002).

È in questo momento che si gettano le basi per la moderna ricerca scientifica sulla cannabis, che negli ultimi anni sta facendo segnare record di pubblicazioni: dall’inizio del 2013 alla fine del 2023 sono stati pubblicati più di 32mila articoli scientifici in materia.

La bellezza di questa pianta, infatti, è che contiene centinaia di principi attivi che lavorano in sinergia, per dare la massima efficacia e il minimo effetto collaterale. E la ricerca si sta dedicando proprio ad esplorare questi principi attivi e la loro azione sul nostro corpo, mediata dal sistema endocannabinoide. Tra questi, nella classe dei cannabinoidi, spicca il THC, anche per le sue doti terapeutiche.  

LE PROPRIETÀ MEDICHE DEL THC

Il THC e la cannabis più in generale sono stati studiati a lungo nel trattamento del dolore, come terapia coadiuvante nel cancro, nel trattamento del glaucoma, dell’anoressia e problemi connessi al cibo, in patologie autoimmuni, psichiatriche e neurodegenerative, e anche per i suoi effetti neuroprotettivi.

L’uso più noto in medicina del THC è quello del trattamento del dolore cronico e neuropatico. Sono decine e decine gli studi che ne decretano l’efficacia e gli scarsi effetti collaterali. C’è anche ormai una bella fetta di letteratura scientifica che testimonia l’efficacia del THC e della cannabis più in generale quando utilizzata insieme agli oppiodi, permettendo di ridurne dosaggio ed effetti collaterali, o in sostituzione di essi.

Altro utilizzo da non sottovalutare è quello di antiemetico, e sono tante le testimonianze di pazienti ad esempio sotto chemioterapia, che testimoniano come sia stata l’unica cosa a far cessare il vomito, o di stimolante dell’appetito sia ad esempio in pazienti oncologici che anoressici. 

Le proprietà fin qui elencate (antidolorifico, antiemetico e stimolatore dell’appetito) spiegano perché la cannabis sia sempre più utilizzata nei pazienti oncologici come coadiuvante ai trattamenti tradizionali, permettendo ai pazienti di gestire meglio i sintomi della patologia e anche gli effetti collaterali di radio e chemioterapia. 

C’è poi anche una corposa letteratura scientifica – di studi in vitro e su cavie animali – che comprende più di 100 studi, sulle proprietà antitumorali del THC. Diversi cannabinoidi, tra i quali THC, CBD e CBG, «mostrano un potenziale promettente come agenti antitumorali attraverso vari meccanismi». È la conclusione di una nuova review sulle potenzialità della cannabis contro il cancro, che è stata da poco pubblicata sulla rivista scientifica Discover Oncology.

«I cannabinoidi, tra cui Δ9-THC, CBD e CBG, mostrano significative attività antitumorali attraverso vari meccanismi come l’induzione dell’apoptosi, la stimolazione dell’autofagia, l’arresto del ciclo cellulare, l’anti-proliferazione, l’anti-angiogenesi e l’inibizione delle metastasi”, riportano gli autori precisando che: “Gli studi clinici hanno dimostrato l’efficacia dei cannabinoidi nella regressione del tumore e nel miglioramento della salute nelle cure palliative. Tuttavia, permangono sfide come la variabilità nella composizione dei cannabinoidi, gli effetti psicoattivi, le barriere normative e la mancanza di un dosaggio standardizzato”.

Come ho scritto nel mio libro “Cannabis. Il futuro è verde canapa”, una data che fa da spartiacque in questo genere di studi è il febbraio del 2000, quando un team di ricercatori guidato proprio da Manuel Guzman, dimostrò che il THC era stato in grado di eliminare il tumore incurabile al cervello in cavie da laboratorio. Lo studio fu pubblicato successivamente dalla rivista Nature.

In pochi sanno però che sono esattamente 50 anni che si ha notizia di queste potenzialità. Era il 1974 quando i ricercatori del Medical College of Virginia, che era stato finanziato dal National Institute of Health per trovare le prove che la cannabis causasse il cancro, scoprirono invece che il THC aveva rallentato la crescita di tre tipi di cancro nei topi (al polmone, al seno e nella leucemia indotta da virus), “rallentando la crescita dei tumori e prolungando le loro vite del 36%”. I risultati furono pubblicati l’anno successivo sul Journal of The National Cancer Institute. Nonostante questo, il governo americano non li rese pubblici e si rifiutò di proseguire le ricerche.

Quello che manca, e che viene spesso sottolineato dai ricercatori stessi, sono studi clinici che possano dimostrare sui pazienti le evidenze scientifiche ottenute su cellule e cavie animali.

Altro capitolo sono le potenzialità del THC nel combattere patologie neurodegenerative e declino cognitivo. Secondo uno studio su cellule del 2016 i cannabinoidi combattono e aiutano ad eliminare la proteina tossica beta amiloide, che causa l’Alzheimer. È stato pubblicato sulla rivista Aging and Mechanisms of the Disease dai ricercatori del Salk Institute in California. Alti livelli di beta amiloide sono associati all’infiammazione delle cellule e ad un alto tasso di morte dei neuroni. Usando il THC sulle cellule, si è ridotto il livello di proteina tossica ed eliminata la risposta infiammatoria delle cellule nervose innescata dalla proteina, consentendo così ai neuroni di sopravvivere.

Nel 2017 invece i ricercatori dell’Università di Bonn e della Hebrew University di Gerusalemme hanno scoperto che il THC potrebbe rallentare il declino cognitivo tipico dell’invecchiamento. Hanno somministrato piccole dosi di THC su topi di diverse età: 2 mesi, quando sono ancora giovani, 12 mesi, quando iniziano a manifestare segni di declino cognitivo e 18 mesi, quando sono ormai anziani. I risultati, pubblicati su Nature Medicine evidenziano che sia a 12 che a 18 mesi di età i topi che avevano ricevuto il THC hanno mostrato funzioni cognitive paragonabili a quelle dei giovani di soli due mesi. Mentre nel gruppo di controllo, gli animali a cui è stato somministrato il placebo, il declino cognitivo si è iniziato a manifestare come previsto intorno ai 12 mesi di età. Insomma, invece che fare i buchi nel cervello, a basse dosi agisce come neuroprotettore.

Oggi, negli stati in cui la cannabis è legale, è possibile trovarlo in decine di prodotti che vanno dai classici edible come muffin o caramelle, passando per torte e dolciumi vari fino ad arrivare a bibite, birra e anche la “stoned pizza”, lanciata a Los Angeles qualche anno fa. 

Il THC si conferma dunque una molecola complessa, probabilmente la più studiata, ma che continua a sorprendere per le sue proprietà, che vanno ben oltre quello che in molti, con accezione negativa, riducono all’uso “ludico” o “ricreativo”.

Sua maestà il THC



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