Psiconauta

Stati non ordinari di coscienza: l’insegnamento di Piero Coppo

Stati non ordinari di coscienza: l’insegnamento di Piero Coppo

Se chiediamo a un pesce che cosa sia ciò in cui nuota, resterà muto, o meglio, non saprà rispondere, poiché dell’acqua non può concepire l’esistenza, suggerisce l’antropologo Ralph Linton. Perché diventi consapevole dell’acqua in cui nuota, dovrà fare esperienza dello spaesamento, ovvero conoscere un’altra acqua, un altro acquario.

 «Di questo mondo se ne può fare etnopsichiatria solo conoscendone altri, radicalmente diversi», dice Piero Coppo, papà italiano di questa disciplina che combina, tramite il prefisso “etno”, alcune discipline umane applicate (filosofia, sociologia, antropologia) con quelle psicologiche, psichiatriche, mediche e psicoanalitiche. Prima di lui c’era stato Michele Risso, che negli anni ’50 aveva approfondito il tema del “delirio da sortilegio” proprio degli italiani emigrati in Svizzera nel secondo dopoguerra, vittime dell’ira funesta scatenata in mogli e compagne rimaste in Italia.
Umile e dotato di uno sguardo plurale, Coppo ci ha mostrato l’ampia e complessa interdipendenza del sistema di cura con la società e l’etnia di appartenenza, facendo propria la lezione dei maestri: Devereux, Collomb, De Martino, Nathan, Basaglia, Kakar. Più interessata a intendere l’orizzonte di senso proprio di una crisi o di una manifestazione di sofferenza individuale, piuttosto che a inquadrarla in una diagnosi nosografica, l’etnopsichiatria si interroga su quali siano le rappresentazioni socio-culturali con cui codifichiamo ordinariamente l’esperienza umana, mettendole in rapporto alla contingenza specifica del contesto e del tempo storico che abitiamo: ne ridimensiona così la loro portata di verità, rispetto alle molteplici forme di intendere la cura proprie di ciascuna cultura, centrando il focus sull’influenza determinante del contesto nel processo di salutogenesi.

Di recente scomparso, ci lascia in questo 2021 chiaroscurale, nel profondo dolore e compianto di chi ha avuto il piacere di conoscerlo, e lascia il Centro Studi Sagara (Scuola di Psicoterapia ad indirizzo etnopsicoterapeutico) di cui era direttore e fondatore. Piero Coppo, medico e neuropsichiatra a orientamento psicoanalitico, è stato autore di una metodologia dell’incontro con l’alterità che fin da subito ha messo radicalmente in discussione il fondamento universalistico delle scienze moderne, fino a integrare forme di saperi e metodi di cura altri a quello tipicamente occidentale. Sia chiaro, non si tratta di accozzare qua e là pratiche e saperi misti, in un amalgama dal gusto post-moderno, bensì di imparare a discernere quando e come utilizzare, caso per caso, una pratica piuttosto che un’altra.

L’etnopsichiatria, questo modo di guardare alla persona che la coglie in stretta relazione con le sue radici culturali, con l’ambiente in cui evolve, con i dispositivi che tale ambiente mette a disposizione per curare quelle che De Martino definiva “crisi della presenza”, si configura allora non soltanto come forma di una possibile mediazione tra popoli distanti, tra culture dominate e saperi dominanti, ma corrisponde invece a un saper fare negoziale tra diversi mondi, capace di disporre criticamente dei saperi e decifrare i poteri che da questi discendono.

Da sempre critico nei confronti della cultura di massa, figlia di un mercato animato da un “irrazionalismo consumista” piuttosto che da esigenze reali, Coppo ci ha messi in guardia rispetto al rischio di collasso della cultura che ci domina, «troppo specializzata, astratta e denaturalizzata, che ha perso il contatto con il fluire delle sorgenti vitali e rischia persino di averne perso il ricordo» (Schiudere soglie, 2013). Facendo tesoro dell’esperienza pluridecennale da ricercatore in Mali, egli ha di certo ravvisato nella società contemporanea una forma “iatrogena” di psicopatologia: ci ammaliamo per lo stile di vita insano che noi stessi abbiamo costruito. Dimentichi che la salute non è uno stato ma processo aperto al divenire e al mutare dei tempi e degli stili di vita, siamo così esposti al rischio di perdere di vista non solo l’alterità, che cambia faccia a seconda di chi sia il “diverso” in questa o quella determinata epoca, ma anche la nostra stessa identità, minacciata a più riprese dalle pressioni sociali alla performance e alla produttività proprie di questo nostro tempo.

Coppo è stato pioniere e anche uno dei primi professionisti nell’ambito della salute a introdurre la respirazione olotropica come dispositivo terapeutico, che permette, nel provocare stati di coscienza modificati, di rievocare esperienze traumatiche e al limite, e di scioglierle attraverso un lavoro concertato sul respiro. Da tempo collaborava con la Sissc (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), e grazie ai suoi studi sappiamo qualcosa di più sul funzionamento e sulla trasmissione culturale delle “tecnologie del sacro”: i dispositivi, gli allestimenti rituali e le tecniche di trance che consentono l’uscita dal tempo cronologico e dalla “gabbia monofasica” dello stato ordinario di coscienza; viaggio psiconautico davvero, che si svolge non nello spazio ma in intensità.

Nel tentativo di raccogliere l’eredità del pensiero di Piero Coppo, andremo allora a immergerci in quel brodo culturale, le acque in cui, come pesci, noi tutti nuotiamo, per scoprire che senza relazione noi non siamo, che l’altro è dentro di noi ed è parte costituente della nostra stessa identità. Senza demonizzare le crisi o gli stati di coscienza fuori dal comune. Imparando ad accostarci all’umano senza aver bisogno di erigere difese, a partire dall’altro che è in noi, a partire dal nostro stesso respiro. Camminando oltre la linea di frontiera in cui la logica lineare non regge più, poiché fallisce quel suo miope tentativo di razionalizzare l’angoscia, ma imparando ad attraversare la soglia che, in un al di là del tempo, ci permette di intravedere il senso di una crisi che si compie fino a trasformarsi in “via per la salute”. Last but not least, occorre fare ritorno al mondo condiviso e comunicabile, forti di quest’esperienza dell’altrove, il cui senso sarà tutto da integrare al ritmo del proprio viver quotidiano. Solo allora, forse, potremo dire qualcosa di più su quest’acqua che ci avvolge e contiene.

a cura di Carolina Camurati
Classe ’93, milanese. Psicologa a orientamento junghiano

TG DV


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