Siti di debunking: chi sono davvero i cacciatori di bufale, chi li finanza e quali tecniche utilizzano
Negli ultimi anni, debunker e fact checker si sono ritagliati un ruolo di primo piano nella lotta al contrasto delle fake news, finendo per collaborare con movimenti, partiti, esponenti politici e giornalisti ed entrando persino nelle task force atte allo smascheramento della disinformazione online. Nel nostro Paese, sfruttando l’attuale emergenza sanitaria, alcuni “sbufalatori” sono stati coinvolti nella Commissione parlamentare sulle fake news, un’iniziativa che, aldilà dei proclami ufficiali, non ha l’obiettivo di garantire un’informazione migliore, ma la creazione di un’informazione certificata: si vuole che il pubblico faccia esclusivo riferimento alle notizie con il bollino dei cosiddetti “professionisti dell’informazione”.
In base al principio di autorità, si vuole imporre come affidabile esclusivamente l’informazione mainstream, escludendo dal dibattito e progressivamente dalla rete l’informazione indipendente.
Per fare ciò si utilizzano i fact checker e i debunker che, invece di ricercare in modo obiettivo la verità e verificare i fatti, si accaniscono contro i “disallineati”, cioè coloro si pongono in modo alternativo rispetto al pensiero unico e al catechismo dei media di massa. Si parte sempre dalla censura dei personaggi controversi o dei casi limite, che tendono a polarizzare e a dividere, che difficilmente la collettività difenderà, per andare a salire e allargare il proprio raggio di azione.
Lo scopo di questa operazione è la legittimazione morale della censura: negli ultimi anni, infatti, si sta cercando di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica una sorta di “censura costruttiva” con lo scopo di tutelare la collettività dalla minaccia della disinformazione, portando così a oscurare sempre più pagine social, video, siti e blog di pensatori scomodi.
Pertanto, nel mirino di debunker e fact checker rientrano i giornalisti e ricercatori indipendenti: l’azione di verifica dei fatti, infatti, non si concentra sull’informazione in generale, ma si focalizza sull’informazione alternativa, puntando a screditarla e a liquidarla come un’accozzaglia di fandonie, mentre le fake news dei media mainstream vengono di fatto “protette”: sono rari i casi in cui i fact checker dedicano tempo e articoli a sbugiardare anche gli articoli e i servizi televisivi dei “professionisti dell’informazione”.
Chi finanzia Facta e Poynter Institute?
Facta, su impulso dell’Autorità Garante nelle Comunicazioni, è un progetto firmato Facebook e Pagella Politica per il contrasto alla disinformazione sul Coronavirus. Facta è firmataria dei Poynter International Fact Checking Principles. Poynter Institute è una società americana leader nel settore del giornalismo che ha sviluppato un’unità chiamata “International Fact-Checking Network”. Essa ha promosso il primo International Fact Checking Day il 2 aprile 2017 e il primo Global Fact-Checking Summit. Da queste premesse l’iniziativa di Facta sembrerebbe un’ottima iniziativa, se non fosse che a finanziare il Poynter Institute troviamo il gotha del mondialismo e delle élite tecnocratiche: la crescita della rete è stata infatti finanziata con una donazione di 11.3 milioni di dollari da parte della Open Society del finanziere George Soros, preceduta nel 2015 dalla donazione di un altro milione di dollari da parte dell’imprenditore e filantropo Craig Newmark.
Non può che sorgere un dubbio sulla imparzialità di questa delicata operazione di controllo associata a una società esterna finanziata dagli architetti del mondialismo.
Chi controlla i controllori?
Invece di essere indipendenti e quindi di poter lavorare in maniera obiettiva, imparziale e trasparente, la collusione tra finanziamenti di poteri forti, progressisti e lobbisti è talmente sfacciata da creare qualche dubbio in merito ai veri obiettivi che si pongono i fact checker e i debunker. Sarà per questo, si chiede Luca Donadel, finito più volte nel mirino dei debunker e autore di diversi video sul tema che Facebook non si preoccupa di censurare tutti quei contenuti che violano palesemente gli “standard della community”, come per esempio, le pagine di jihadisti che inneggiano alla Guerra Santa o quelle pagine relative alla sponsorizzazione degli scafisti? Perché il famoso social non oscura i tanti contenuti pericolosi che ospita la piattaforma ma censura immediatamente qualunque post critichi il pensiero unico?
Nel video “Chi controlla i controllori?”, inoltre, Donadel spiega che il concetto di hate speech è un artifizio ideologico vago e pericoloso che può essere facilmente strumentalizzato di volta in volta, a seconda degli interessi che si vogliono perseguire: così gli algoritmi del social di Zuckerberg si focalizzano a silenziare i contenuti razzisti contro i neri ma non contro i bianchi, in una moderna forma di bipensiero orwelliano. Invece di proteggere tutti i cittadini dall’odio e dalla violenza dei social, si tutelano soltanto delle precise minoranze, riecheggiando il vecchio motto de La fattoria degli animali: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.»
Le tecniche per screditare i giornalisti indipendenti
Per screditare un ricercatore e le sue teorie vengono usati tutti i mezzi possibili, compreso l’attacco personale e la strumentalizzazione di qualunque cosa possa tornare utile alla causa. Principalmente, la teoria scomoda verrà bollata come paranoica, complottista e bugiarda: lo scopo è quello di rendere insensata, folle, la teoria scomoda che si vuole denigrare e fare apparire un pazzo bugiardo chi la promuove. Attraverso l’utilizzo del linguaggio si squalifica in partenza la persona refrattaria alle verità di regime, inserendola in un frame (“cornice”) negativo e denigratorio, in modo da infamarla e comprometterne la reputazione e l’autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica.
Si crea, quindi, una cornice negativa, per esempio quella sempreverde del “complottista” o del “no vax”: tutto quello che vi viene fatto rientrare, vi appartenga o meno non importa, sarà visto dall’opinione pubblica come qualcosa di pericoloso da cui stare alla larga. Durante il dibattito sul Covid-19, per esempio, si sono utilizzate diverse tecniche per inibire il confronto e dileggiare coloro che contestavano alcune misure repressive o la narrativa catastrofistica, arrivando ad additare costoro come ciarlatani o rincretiniti nel caso di medici o scienziati (si pensi ai casi del prof. Giulio Tarro o del premio Nobel Luc Montagnier), di negazionisti (es. il caso Bocelli), terrapiattisti e ovviamente complottisti (che poi i complottisti, citando Giulietto Chiesa, dovrebbero essere coloro che ordiscono complotti, non che li studiano per svelarli).
I mastini del pensiero unico
Come se non bastasse, esistono anche i registri di proscrizione di svariate associazioni (gli albi, in cui sono liberamente inseriti i nomi di coloro che vengono ritenuti “omofobi”, “antisionisti”, e pertanto “antisemiti”, “razzisti”, “fascisti”, ecc.): un altro modo per affibbiare un’etichetta e screditare quella persona, da parte di collaboratori del potere.
In definitiva, i debunker strumentalizzano il dilagare di bufale sul web per portare alla creazione di un’informazione certificata e all’approvazione di disegni di legge contro la disinformazione, il cui vero obiettivo, però, è quello di legittimare la censura.
Ma censurare il web, quando è proprio il potere a manipolare per primo l’informazione, a fare propaganda e a diffondere fake news, rende palese come il pensare di epurare i contenuti in Rete sia tanto ipocrita quanto un progetto strumentale a mantenere l’infallibilità del sistema. Se dovessimo censurare, multare o arrestare coloro che mentono, i primi a farne le spese dovrebbero essere alcuni giornalisti del mainstream e molti, molti politici; così come se dovessimo multare i primi che fanno cyberbullismo, tra debunker e troll, finirebbero nei guai molti personaggi prezzolati o vicini alle stanze del potere.