Silvia Romano, la vittima “non perbene” che dice molto della nostra società
“Capiamo i banditi e le ragioni per cui agiscono in quel modo, sebbene il reato di sequestro di persona sia tra i delitti più odiosi che si possano commettere”. A dichiararlo fu Fabrizio De André durante il processo ai suoi rapitori. Lui e la sua compagna, Dori Ghezzi, anch’essa rapita e tenuta prigioniera il 27 agosto 1979, si costituirono parte civile contro i mandanti ma perdonando, invece, i carcerieri e la manovalanza. Proprio così, li perdonarono. Pensiamo se a pronunciare parole di perdono fosse stata Silvia Romano al suo rilascio nei giorni scorsi.
Un sequestro non è un aperitivo e un dissequestro non è una passeggiata digestiva dopo cena. I sequestri sono roba violenta, traumatica, e i dissequestri roba necessariamente sporca, compromissoria, per cui si scende a patti, si commercia sulla cifra del riscatto, che tutti pagano, tutti, anche gli Stati che dicono di non pagare. Tra le miriadi di critiche passate di bocca in bocca, di social in social, una cosa però è vera, il rientro degli ostaggi va sempre gestito nel silenzio comunicativo. Altrove, in Francia ad esempio, passano (almeno) mesi prima che gli ostaggi liberati compaiano in pubblico, ma i geni della comunicazione del Grande Fratello forse hanno pensato che dopo 3 mesi di Sars-CoV2 60 milioni di italiani aspettavano qualche altra cosa con cui distrarsi e sfogarsi.
Al suo arrivo, nel quartiere Casoretto di Milano, sotto casa di Silvia Romano c’erano più giornalisti che parenti e amici, uno spettacolo indecente, oltre che pericoloso, in barba a ogni protocollo di distanziamento sociale. Qualcuno dirà che bastava farla rientrare a casa di notte, dopo che i giornalisti fossero andati a dormire, invece niente, tutto è finito nel tritacarne mediatico, con la responsabilità più o meno di tutti, compreso gli psicoterapeuti e similari che ospiti delle trasmissioni si sono lanciati in diagnosi azzardate sulla base di qualche fotografia e due minuti di video, costringendo l’Ordine nazionale degli psicologi a pubblicare una nota ufficiale in cui si sottolinea che: “Il sapere scientifico psicologico dimostra in modo incontrovertibile che nessuna diagnosi può essere fatta per interposta persona o sulla base di immagini o di riferiti. La valutazione clinica è un lavoro delicato che richiede un contatto diretto e degli strumenti professionali: questo processo non può essere lasciato nelle mani di chi sostiene la strumentalizzazione mediatica, di comunicatori imprudenti o di persone mosse da sentimenti primitivi e nessuna competenza in materia“.
Agli italiani non è andata giù quella tunica islamica, né il fatto che fosse ingrassata, né il fatto che abbia sorriso, né il fatto che non abbia lamentato violenze psicologiche o fisiche. La distinzione tra buona e cattiva vittima, oltre che a individuare comunità di appartenenza, in questo caso la nostra, serve anche a definire cos’è la “nostra” donna, a dire quali doti deve avere una vittima legittima per essere difesa o in nome della quale muovere una guerra. La vittima perbene è utile a delineare la condotta alla quale una donna altrettanto perbene deve attenersi per essere riconosciuta in quanto tale.
La vittima non per bene non è utile. E Silvia Romano, con quella tunica, quel sorriso, quei chilogrammi in più, non era per bene.
Le immagini dell’abito islamico di Silvia sono e saranno potentemente strumentalizzate sia in Occidente, da “noi” cristiani, almeno tradizionalmente, sia da “loro”, in Somalia e nelle altre aree in cui vige il fondamentalismo islamico.
Triste, molto. Ancora una volta, il corpo di una donna, con tutte le gestualità ed estetiche annesse, è diventato “luogo” in cui si esercita il discorso pubblico. Coperta, sorridente, ingrassata. Non corpo personale, ma piazza pubblica.
Silvia Romano è tornata cambiata dalle foto a cui durante i 18 mesi di sequestro ci siamo inevitabilmente affezionati. Il cambiamento è quanto di più difficile ci sia da accettare.
Nei fatti, nella pratica, però,a noi spettatori, cosa toglie/dà la sua conversione? Nulla.
Cosa dà/toglie il suo volontariato? Molto. E tuttavia, ha fatto volontariato per dare/togliere qualcosa a noi spettatori? No. Come ha detto suo padre, nessun intento dimostrativo, nessuna ambizione a diventare icona in sua figlia. La sua sfera privata è diventata pubblica non per sua volontà. È successo. Rientrando in Italia, sapeva che la sua sfera privata non sarebbe più stata tale? Chi può dirlo. Le hanno proposto di cambiarsi d’abito, non ha accettato. Era lucida, cosciente di sé, delle conseguenze? Dei segnali, dei sottesi, delle strumentalizzazioni “ecco l’hanno imbarbarita/ecco l’abbiamo addomesticata” tanto in Gabriele Romagnoli che si improvvisa padre e semiologo in un articolo su Repubblica, quanto nei network jihadisti? Chi può dirlo. Voleva dirci qualcosa con quell’abito? Non è escluso.
Se vorrà, sarà lei a mettere a tacere ogni dubbio e polemica.
Sta bene, è a casa, questo, in ogni caso, ci basti.
A cura di Stela Xhunga, articolo pubblicato su People for Planet