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Siamo la patria della post-verità

Siamo la patria della post-verità

Se vi chiedessero di stimare la percentuale di omicidi nel nostro paese, direste che è maggiore, minore o uguale rispetto a vent’anni fa? Stessa domanda a proposito dei detenuti immigrati. Allora? E ancora: qual è lo Stato dove il consumo pro capite di alcol è maggiore? Quanti siamo a possedere uno smartphone o un account Facebook?

Non prendetevela, ma c’è una buona possibilità che non vi siate minimamente avvicinati alla realtà delle cose.

Bobby Duffy, direttore della sezione inglese della società di ricerche Ipsos, ha raccolto prove che ci attribuiscono un nuovo primato: gli italiani sono il popolo più incline ad avere percezioni falsate sulle tematiche che riguardano la società. Non è un vanto, ma siamo davanti persino agli Stati Uniti (increduli di non essere in cima a questa classifica). I più precisi in assoluto sono invece gli svedesi (ci avremmo scommesso, no?) seguiti dai tedeschi.

Siamo la patria della post-veritàDuffy e i suoi hanno preso in esame più di 40 paesi, raccogliendo oltre 100mila interviste, prima di pubblicare i risultati in “Perils Of Perception”, un libro da poco uscito in Inghilterra che riserva parecchie sorprese. A ciascuna persona i ricercatori hanno posto 28 domande, le cui risposte sono state messe a confronto con i dati reali. Tra tutti gli stati coinvolti, l’Italia ha evidenziato la distanza maggiore tra come i cittadini percepiscono la società e come la società realmente è. Ad esempio, mentre solo il 12% della popolazione al tempo dell’inchiesta risultava disoccupato, le risposte la indicavano di gran lunga superiore: ben al 49%. Gli stessi dichiaravano che secondo loro il tasso di immigrati corrispondeva al 30%, quando la cifra reale era del 7%. Ancora, credevano che il 35% delle persone soffrisse di diabete, quando in realtà si trattava del 5%. In Italia tendiamo a sovrastimare anche il tasso di gravidanze tra teenager, il numero di suicidi, i livelli di obesità e perfino la percentuale dei connazionali ultrasessantacinquenni. Complice la prossimità del Vaticano, siamo invece veri esperti quando si tratta di religione, centrando con esattezza la percentuale di coloro che hanno detto di credere nel Paradiso (48%). Vita ultraterrena a parte, qual è la ragione di questo divario? Fate attenzione, anche in questo caso la vostra risposta potrebbe essere tutt’altro che esatta, attribuendo più responsabilità del dovuto ad alcuni fattori piuttosto che ad altri. Perché, lo sappiamo, la tentazione è quella di incolpare le notizie false e la politica sempre più sensazionalistica dei media, ma la verità è che le cause che ci portano a essere in errore sono diverse, non solo esterne e dunque fuori dal nostro controllo, ma anche innate.

Perché sbagliamo
Se spesso abbiamo l’impressione che tutto stia lentamente, ma inesorabilmente, andando a rotoli, un motivo c’è: il nostro cervello presta più attenzione alle notizie negative. Su questo e altri irragionevoli pregiudizi di cui è vittima il nostro pensiero si è interrogato per una vita Hans Rosling, un fuoriclasse della statistica, professore alla Karolinska Institutet (la facoltà di medicina di Stoccolma che assegna l’omonimo premio Nobel), che ha legato il suo nome al software Gapminder. L’applicazione, rinominata Trendalyzer dopo la sua acquisizione da parte di Google Inc nel 2007, è tuttora utilizzata in Svezia come strumento didattico nelle scuole e nei luoghi di lavoro allo scopo di smantellare idee sbagliate e promuovere una visione del mondo basata sui fatti. I suoi grafici animati, noti per l’utilizzo delle bolle, hanno il merito di rendere evidente il gap tra ciò che pensiamo e ciò che emerge dall’analisi dei dati contrastando così i meccanismi che sono soliti trarci in inganno. Come ritenere che il passato sia migliore del presente, una nostalgia immotivata verso un trascorso aureo, da cui l’adagio popolare «Si stava meglio quando si stava peggio»: non è esattamente così che funziona. A metà del secolo scorso i sondaggi erano rari, spesso limitati alla politica, però facendo le dovute proporzioni, si può dire che da allora poco è cambiato. Ci sbagliamo esattamente nella stessa maniera: la post-verità è sempre esistita, ma solo nel 2016 è comparsa tra i lemmi dell’Oxford English Dictionary per indicare quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza.

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Questo dipende tanto dal funzionamento del nostro cervello che adopera scorciatoie che possono portarci fuori strada, quanto dal livello di scolarizzazione e dalle cose che apprendiamo dai media, dai colleghi, dai famigliari. Non solo. La fallacia, come è ovvio, deriva in prima battuta da una valutazione che nasce da conoscenze insufficienti della situazione effettiva, ma anche – e forse soprattutto – da componenti emotive. Erin Meyer, nel suo libro “The Culture Map”, ha misurato il grado di emotività di diversi paesi e i risultati della sua ricerca sono in straordinaria sintonia con la fotografia scattata da Duffy in “Perils Of Perception”: i paesi più “emotivi” – se ve lo steste domandando, gesticolare e tenere il tono elevato della voce rientrano tra gli indicatori – sono quelli dove la percezione è più distorta. L’Italia e gli Stati Uniti, neanche a dirlo, sono sul podio.

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Grazie agli studi dell’Istituto di ricerche Carlo Cattaneo di Bologna, poi, è emerso un altro dato interessante: le persone che esprimono più diffidenza e preoccupazione su temi sociali come l’immigrazione, vivono nelle regioni dove il fenomeno è meno rilevante. L’indagine non risolve il dilemma se sia l’ostilità a causare l’errata percezione o viceversa, si tratta di fenomeni collettivi molto complessi in cui le forzature e le strumentalizzazioni mediatiche che sono proprie di temi politici sentiti e divisivi giocano solo uno dei ruoli. Anche il grado di scolarizzazione ha il suo peso nelle convinzioni che ci costruiamo: meno le persone sono istruite e meno dimestichezza hanno con i numeri, più sono propense a far valutazioni campate in aria, a non comprendere i dati disponibili o a fraintenderli. Numerose ricerche hanno dimostrato che il 10% della popolazione, ad esempio, ha problemi a quantificare le percentuali.

 

Il problema delle fonti
C’è poi un fenomeno tutto contemporaneo che carica ulteriormente i singoli individui, e in primo luogo i più fragili, di oneri cognitivi assai maggiori che in passato portandoli all’errore: la disintermediazione, ovvero il processo tramite il quale la società odierna fa a meno dei filtri in ambiti sempre più numerosi, favorita dalla comunicazione orizzontale tipica di Internet e dalla perdita di autorevolezza dei tradizionali referenti istituzionali, politici e culturali. Una condizione che fornisce grande libertà ma contiene un alto rischio di abbaglio.

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In una realtà in cui non possiamo controllare quasi niente direttamente, non abbiamo né le capacità né il tempo per farlo, dobbiamo per forza fidarci di qualcuno e non sempre le nostre valutazioni risultano corrette. Per quanto riguarda l’informazione in Rete, è sempre più evidente il bisogno di un’educazione al discernimento delle fonti con la raccomandazione di rimettersi alla scienza, anch’essa comunque passibile di errore, dunque confutabile. Ad ogni modo, il “Lancet” e “Nature” sono meglio delle “Iene” se vogliamo sapere quali trattamenti sono efficaci per curare una neoplasia o se sotto al Gran Sasso si svolgono pericolosi esperimenti. Così come è meglio rivolgersi a un ingegnere piuttosto che a un laureato in Scienze della Comunicazione se vogliamo controllare la tenuta di un ponte. Nella moltitudine delle fonti, è fondamentale sapersi orientare per la costruzione dei nostri pensieri. Per ridurre le percezioni errate, però, non basta solo ricercare informazioni accurate ma anche tenere sempre presente che tutti noi soffriamo degli stessi pregiudizi e utilizziamo le stesse scorciatoie mentali.

Siamo la patria della post-veritàUno studio del 2017 ha rilevato che la ripetizione ci aiuta a familiarizzare con i fatti, non solo con le falsità, il che significa che oltre al fact-checking, è importante che un pubblico il più ampio possibile entri in contatto, e più volte, con i dati effettivi.

Un esempio positivo in tal senso è la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul cambiamento climatico: secondo i sondaggi la maggioranza della popolazione sa che i climatologi prevedono l’aumento delle temperature. Ciò significa che nel giro di qualche decennio i risultati degli studi scientifici si sono trasmessi dal laboratorio al pubblico in maniera efficace orientando un cambiamento dei comportamenti degli individui e l’azione dei governi.

«Tutti noi facciamo valutazioni e prendiamo decisioni in base a quello che sappiamo. E quello che sappiamo è costituito dai concetti che abbiamo interiorizzato, mediati e integrati dalle percezioni che abbiamo del mondo che ci circonda» scrive Annamaria Testa su “Internazionale”. «Se le percezioni sono distorte, e se magari anche i concetti sono fragili, facciamo valutazioni infondate e poi prendiamo decisioni stupide, inadeguate o controproducenti. Abbiamo tutti la possibilità di usare la forza dei fatti a nostro vantaggio, per capire e non lasciarci accecare dalla rabbia, dall’ignoranza, dalle semplificazioni». Chiaro, no?

a cura di Mena Toscano
Giornalista underground dal 1999



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