Siamo ancora qua: la resistenza di chi vive nelle zone terremotate
A quattro anni dal sisma la ricostruzione nei territori del centro Italia è ancora ferma.
Migliaia di persone vivono nei villaggi SAE, le Soluzioni Abitative di Emergenza poco più che scatolette prefabbricate in tre taglie: 40/60/80 mq a seconda delle dimensioni del nucleo famigliare. Altre migliaia di persone vivono in CAS (Contributo di Autonoma Sistemazione) cioè un contributo erogato dallo stato per prendersi in affitto una casa ovviamente dove case ci sono, quindi lontano da dove si viveva. Per alcuni questo contributo è diventato anche l’unico sostegno al reddito producendo forti iniquità: un obolo utile ma non necessario per chi ha un reddito alto, un contributo insufficiente per chi oltre la casa ha perso anche il lavoro. Ancora centinaia di persone vivono negli alberghi e stanno vivendo il dramma di doversene andare passando in CAS per consentire la stagione agli albergatori.
In tutto questo di certo l’emergenza Coronavirus ha ulteriormente complicato le cose. Fortunatamente il virus non è arrivato, se non in pochi limitati casi, nelle zone terremotate né vi sono stati focolai, ma di certo si sono cumulati i disagi di una condizione di vita già limitata. In tutto questo qualche speranza è stata data dalle ordinanze del nuovo commissario, quantomeno nel metodo. Infatti dopo anni di scontri e di proteste i comitati dei terremotati portatori di decine di proposte sono stati ascoltati e considerati interlocutori stabili della struttura commissariale per giungere alla risoluzione dei problemi. Quando questo accadrà è tutto da vedersi anche perché la politica sembra essersi dimenticata delle zone terremotate e si arriva persino alla mancata inclusione delle misure più urgenti nel cosiddetto “decreto rilancio”.
Ma più delle difficoltà ci piace parlare della multiforme resistenza della gente di questi luoghi:
della straordinaria capacità di accoglienza degli operatori turistici della montagna, spesso però assaliti da un turismo un po’ “barbarico” mordi e fuggi. In questi luoghi bellissimi che vale la pena sostenere anche visitandoli e rispettandoli è importante parlare di rigenerazione eco-sociale e conoscenza dell’Appennino, delle mille alternative fatte di cammini, turismo lento, produzioni locali, iniziative culturali, pur nei limiti imposti dalle regole antivirus. Ci piacerebbe parlare a lungo delle forme di resistenza delle aziende agricole, delle comunanze agrarie, delle piccole comunità. E restare, abitare l’Appennino è anche contrastare iniziative calate dall’alto (nuove imponenti grandi opere e l’arrivo di multinazionali dell’agrobusiness) con progetti, cui diamo tutto il nostro sostegno, come la Coop di Comunità del Ceresa di cui è arrivato il primo raccolto di frutti di bosco.
Resistere è anche contribuire al recupero dei castagneti contro lo sfruttamento dei terreni per piante non autoctone come i noccioleti; è provare concretamente, giorno dopo giorno, a costruire alternative concrete alla grande distribuzione organizzata, nell’ottica della costruzione di comunità, che unisca produzione, trasformazione, distribuzione e consumo.
Sarà un’estate ancora con le ferite aperte del sisma ma con tanta forza e voglia di rinascita, nonostante tutto.
Brigate di solidarietà attiva – Terremoto centro Italia