Si può essere animalisti e difendere la ricerca scientifica?
È recente la notizia del primo esempio di clonazione di un primate con DNA modificato per sviluppare i disturbi del sonno. Secondo l’Istituto di Neuroscienze dell’Accademia delle Scienze di Shanghai, sulle cinque scimmie appena nate verranno fatte indagini per studiare l’insonnia, la depressione e malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, finora impossibili da riprodurre in laboratorio. Questo approccio di editing del DNA Crispr-Cas9, dicono i ricercatori, permette di ridurre costi e tempi delle sperimentazioni e diminuire il numero di animali impiegati. La procedura, insomma, rispetta le norme internazionali del benessere animale. Ma gli animalisti restano critici.
Ne parliamo con Chiara Lalli, docente di bioetica alla Sapienza che nel suo lavoro si è occupata spesso delle implicazioni morali delle biotecnologie, coautrice con Gilberto Corbellini di “Cavie? Sperimentazione e diritti animali“, un testo particolarmente acuto e ben argomentato edito da Il Mulino.
Come si coniuga la sperimentazione con i diritti degli animali? Altrimenti detto, si può essere animalisti e difendere la ricerca?
Più di quanto potrebbe sembrare. Dobbiamo alla sperimentazione animale quasi tutto quello che sappiamo di anatomia, fisiologia, terapie, farmaci, trapianti, strumenti diagnostici. L’attenzione odierna al benessere animale è dovuta anche al benessere che abbiamo ottenuto grazie alla ricerca biomedica.
Dalle 3 R (sostituzione, riduzione, raffinamento) in poi, il benessere degli animali è stato un criterio importante nella ricerca biomedica. “The Principles of Humane Experimental Technique” è stato pubblicato nel 1959. In questi 60 anni, l’uso degli animali a scopo di ricerca è cambiato molto e il loro benessere non è solo determinato dall’interesse di poter usare cavie in buona salute, ma è sempre più un fine considerato intrinsecamente giusto. Ricordiamoci che possiamo garantire il benessere degli animali se li conosciamo, e li conosciamo grazie alla ricerca. Inoltre, per numero e qualità della vita, gli animali da laboratorio stanno meglio di quelli negli allevamenti intensivi.
I progressi della scienza e della tecnologia fanno intravedere soluzioni alternative alla sperimentazione sugli animali?
Sì, ma oggi non siamo ancora in grado di simulare la complessità degli organismi viventi. I modelli in silico o le colture cellulari non possono sostituire la sperimentazione animale. In realtà la migliore alternativa sarebbe usare gli esseri umani, ma ci sono ovviamente molti limiti per ragioni morali (a volte eccessivi e irrazionali, come nel caso della sperimentazione sugli embrioni umani). Tecnicamente saremmo i migliori modelli sperimentali di noi stessi.
Insomma, per testare un farmaco o un trattamento ci servono ancora gli animali. Aggiungo che i ricercatori sarebbero i primi a voler usare cavie inanimate, sia per ragioni morali (è falso che gli scienziati siano intrinsecamente indifferenti o, peggio, provino quasi un sadico piacere nel provocare dolore), sia per ragioni economiche e burocratiche.
La questione del dolore e della sofferenza degli animali è un elemento chiave nella discussione morale intorno alla sperimentazione. Ma quanto sappiamo su questo argomento?
Sappiamo sempre di più grazie al lavoro dei ricercatori. Nel dolore c’è una componente soggettiva e privata che è impossibile misurare con esattezza, ma per esempio oggi sappiamo che le aragoste sono in grado di soffrire a contatto con il ghiaccio. O che i cefalopodi sono animali con un sistema nervoso complesso, perciò la nuova legge sulla sperimentazione li ha inclusi nelle specie da tutelare. Le sperimentazioni si svolgono in sedazione e il contenimento del dolore è una condizione necessaria. Così come il miglioramento delle condizioni di vita negli stabulari: igiene, giochi, silenzio. Certo, usiamo sempre quegli animali per noi – anche se molte delle scoperte sono utili a fini veterinari.
La domanda più difficile riguardo alla sperimentazione è di natura morale: è giusto usare gli animali?
Rispondere dicendo che la ricerca non serve più e che può fare a meno dei modelli animali è falso – e, d’altra parte, se fosse inutile solo dei pazzi continuerebbero a farvi ricorso. Si confonde però il piano morale con il piano scientifico. Per ragioni morali possiamo anche decidere di smettere di usarli, ma dobbiamo accettare le conseguenze. Ovvero, che quasi tutta la ricerca di base e la ricerca biomedica si fermerebbero.
Oggi non usiamo gli animali solo per la ricerca e la sperimentazione. Lo facciamo per cibarcene e per divertimento, li usiamo per sport, per lavoro, per assistenza (cani poliziotto, cani per disabili), per compagnia, per i combattimenti, per la pet therapy. Alcuni usi sono o sembrano più legittimi di altri: ma è davvero così?
Dipende dal contesto, dalle conseguenze e dalle finalità. Se paragoniamo la ricerca di base al divertimento, è abbastanza facile rispondere. O se pensiamo ai combattimenti. Non lo è in altri casi: è giusto uccidere un animale per mangiarlo? La riposta cambia naturalmente in base alle alternative e alle conseguenze (valutare, per esempio, l’impatto e la fattibilità di una dieta priva di carne). E ancora: siamo sicuri che il gatto stia meglio nel nostro salotto? Oppure che la selezione di alcune razze di cani, ossessiva e determinata da ragioni estetiche, sia nel loro interesse?
Il nostro rapporto con gli animali è caratterizzato da contraddizioni e stranezze. È sempre stato così. Alcune risposte, come ho detto, possono diventare più facili quando abbiamo maggiori informazioni, ma poi dobbiamo comunque fare un salto morale. È giusto o sbagliato?
Questa intervista, con ogni probabilità, farà arrabbiare molti e soddisferà pochi.
Pazienza. Per peggiorare le cose aggiungo che spesso i più feroci critici dell’uso dei modelli animali (che ricordiamo sono per la maggior parte topi, nonostante le campagne o le iniziative che intendono condannare la sperimentazione usano spesso cani e gatti) non si interessano alla fine che fanno i ratti nelle città, eliminati con mezzi dolorosi e atroci. È più facile provare empatia per un topolino bianco e pulito che per una nutria appena uscita dal Tevere, ma sono più o meno lo stesso animale. E, soprattutto, entrambi provano dolore allo stesso modo.