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Serge Latouche: chi è il profeta della decrescita felice

img2Economista e filosofo francese, Serge Latouche nasce in Francia nel pieno del Secondo Conflitto Mondiale. Noto per la sua avversione alla dilagante occidentalizzazione dei popoli, si è sempre proclamato in favore di una decrescita felice che aiuti l’umanità a liberarsi definitivamente della visione economicista applicata a ogni cosa.

Lo stesso concetto di sviluppo implica una visione del mondo in chiave economica, così come il tanto decantato “sviluppo sostenibile”. Secondo Latouche, anche quest’ultimo è da considerare negativo, in quanto racchiude il tentativo estremo di far sopravvivere una costante crescita economica, lanciando il messaggio che da essa dipenda il benessere dei popoli.

Decrescita non significa per forza sacrificio e rinuncia, ma piuttosto favorire uno stile di vita incentrato maggiormente sulla sobrietà, sul senso del limite e sulle “8 R” (Rivalutare, Ricontestualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riciclare, Riutilizzare) per far fronte ai problemi ambientali e sociali del nostro tempo, dovuti proprio alla crescita irresponsabile.

L’occidente rappresenta, per Latouche, non solo un’entità geografica, quanto una creazione ideologica della stessa popolazione occidentale, la quale pretende di imporre valori e credenze a tutto il genere umano. Infatti, è lo stesso occidente che si attribuisce la presuntuosa missione di liberare gli uomini dall’oppressione e dalla miseria, imponendo la propria identità come buona e giusta.

Quel che invece sarebbe auspicabile, secondo l’economista francese, sarebbe dialogo e coesistenza fra le culture. Sarebbe importante riconoscere che esistono diversità ma che queste possono convivere pacificamente, se non instaurare un rapporto di serena cooperazione. Latouche chiama questa visione “universalismo plurale”, in opposizione alla normale idea di “universalismo” che, invece, porta a un dilagante imperialismo culturale.

Non è necessario rinnegare o mettere in discussione il passato, occorrerebbe solo osservare quelle civiltà che hanno saputo fare un buon uso dei diversi elementi: consumismo, industrializzazione, capitalismo e sviluppo.

Decolonizzare l’immaginario occidentale dall’economicismo significherebbe anche rivalutare e ricontestualizzare alcune zone del pianeta. Il terzo mondo, per esempio, è in tale stato di abbandono perché è necessario alla macchina capitalistica: la povertà è il segno dell’inferiorità nella concezione occidentale ed è necessario che vi sia sempre qualcuno “sotto” per rafforzare il potere e l’ego di quelli che si considerano “sopra”.

Secondo Latouche, questa occidentalizzazione forzata porta inevitabilmente ad uno stato di crisi culturale: i delusi, i truffati e le vittime del mito dello sviluppo cercano altrove il proprio modo di emergere ed affermarsi, rivolgendosi a una “ri-culturalizzazione di matrice antioccidentale”. In fondo, ciò che mira a fare l’occidente è sostituire forme di cultura già esistenti, e potenzialmente migliori, con i propri valori. Questi ultimi, però, non tengono conto del contesto in cui si insediano e si risolvono, sempre più spesso, in un fallimento su tutta la linea. Come accadde, appunto, per il “terzo mondo”.

Jessica Ingrami

 



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