Senza Facebook non sei nessuno (secondo loro)
Su che cosa si fonda l’identità di una persona? Quali sono le caratteristiche che ci rendono unici e inconfondibili? Come cambia la percezione di noi stessi quando comunichiamo con gli altri? Se tutte queste domande hanno una risonanza spirituale e filosofica, oggi come oggi hanno anche delle implicazioni molto più prosaiche legate alla sempre più invadente presenza dell’infrastruttura digitale in cui siamo immersi.
Quesiti antichi assumono sempre un nuovo significato quando associati alla tecnologia. La domanda «chi sono io?» ha una risposta semplice e puntuale, qualora la si ponga a un servizio web come Facebook o Twitter: username e password. E cioè due stringhe di codice, una pubblica e una segreta, che permettono di accedere ai servizi offerti dalla piattaforma di turno.
La nostra identità personale altro non è che un compromesso tra come vediamo noi stessi e come ci vedono gli altri. L’adozione massiva di profili online sulle varie piattaforme non fa che sbilanciare maggiormente questo precario rapporto. Pezzi della nostra identità rifluita online sono proprietà di poche corporation multinazionali con appena 10 anni di storia, come Facebook, o 15, come Google. Anche ai meno critici non sfugge che le implicazioni di tutto questo possono essere difficili da prevedere.
Verso la fine del 2015 sorse una polemica relativa a Facebook riguardo l’utilizzo di nomi reali invece di pseudonimi particolarmente riguardo alla comunità LGBT. La politica dei nomi autentici di Facebook richiede ai membri di utilizzare il nome con cui sono comunemente noti ai propri amici e conoscenti. Anche se il nome vero non è ufficialmente richiesto, alcune persone transessuali sono stati segnalate a causa dell’utilizzo di pseudonimi. Utilizzare il proprio nome, infatti, può diventare un vero e proprio pericolo. Sono noti casi in cui sia attivisti che vittime di violenza domestica sono stati segnalati per il mancato utilizzo del proprio nome e cognome, con conseguente sospensione dell’account.
Facebook utilizza la politica dei nomi autentici per evitare troll e possibili abusi. In caso di contestazione di un account il social network può chiedere una “prova” che dimostri la reale identità dell’utente, come un documento di identità. Sebbene dopo la protesta della comunità LGBT, Facebook abbia fatto dei passi in avanti per permettere ai propri utenti l’utilizzo di pseudonimi, non è ancora chiaro come la questione verrà gestita in futuro.
Dopo le paranoie post 11 settembre e, soprattutto, la politica del nome proprio di Facebook, la nostra identità digitale si sta sempre più legando alla nostra identità reale, qualsiasi cosa quest’ultima significhi. Ma non è stato sempre così. I meno giovani tra i lettori di Dolce Vita ricorderanno il tempo in cui internet era il regno degli pseudonimi. Fino agli anni ’90 infatti, quando le regole del web erano ancora in via di definizione, regnava una sorta di anarchia libertaria in materia di nomi e identità (famosissima la vignetta “su internet nessuno sa che sei un cane”). Le persone potevano sperimentare anche fingendo di essere qualcun altro. Oggi non è più così. Fingere o celare la propria identità può sembrare un’implicita e preventiva ammissione di colpa o di intenzioni opache.
La nostra identità ormai è uno strano mix tra burocrazia tradizionale, network digitali, auto-narrazione e psicologia. Nessuno di questi ambiti, di per sé, esaurisce la questione dell’identità personale, che sarà sempre qualcosa di non commensurabile alla somma delle singole parti. Tuttavia le nuove modalità che investono l’argomento offrono molteplici spunti di riflessione. Ma prima di capire che cosa sia la nostra identità in senso ampio, sarebbe meglio capire come proteggere almeno la sua controparte digitale. E dopo l’hacking di account di celebrità come il famigerato The Fappening, sembra che davvero nessuno possa ritenersi immune. Anche gli account di Mark Zuckerberg sono stati infatti violati. La password per entrare nei suoi profili di Twitter e Pinterest altro non era che “dadada”. È incredibile la leggerezza con cui ognuno di noi tratta le sue estensioni digitali, ancora più incredibile che tale leggerezza si possa associare all’individuo più influente nel panorama dei social network. Abbiamo abbracciato con fiducia incondizionata ciò che questi servizi ci offrono, senza renderci conto non solo delle implicazioni che questi comportamenti diffusi hanno sulla psicologia del singolo individuo, ma trascurando in modo imperdonabile anche i più banali rischi riguardanti la nostra sicurezza personale.
Alcuni ritengono che un passo in avanti in materia di autenticazione sia rappresentato dall’utilizzo di dati biometrici come il timbro della voce o la scansione dell’iride oculare. Lasciando perdere le sfumature distopiche della questione, la sicurezza di questi metodi è tutt’altro che garantita. Uno dei modi più recenti di autenticarsi nei nostri dispositivi è rappresentato dalle impronte digitali. Usare la propria impronta digitale per sbloccare l’iPhone è un passo abbastanza definitivo nel legare la nostra identità digitale ai nostri corpi fisici. Eppure rubare un’impronta digitale, riproducendone una copia attraverso la stampa in 3D, non è poi così difficile. Come scrive The Verge: «La cattiva notizia è infatti che un’impronta digitale può essere rubata e, a differenza di una password, non può essere modificata. Così un solo furto di credenziali crea una vulnerabilità che permane una vita intera. Quello che sembra a prima vista un miglioramento dei requisiti di sicurezza è quindi in realtà una questione molto più complessa. (…) Le impronte digitali sono sempre presenti e in bella vista: vengono lasciate in giro ogni qual volta tocchiamo una superficie liscia».
Noi siamo i nostri dati, la nostra identità è legata alle informazioni su noi stessi di cui abbiamo, in un certo senso, l’esclusiva. Ma ora tutte queste informazioni sono state in larga parte esternalizzate e affidate ad aziende quotate in borsa. Si tratta a tutti gli effetti di un esperimento sociale dagli esiti imprevedibili. Anche se è inutile abbandonarsi a catastrofismi, è indubbio che forse stiamo prendendo tutto questo un po’ alla leggera. Nessuno può sapere se tra vent’anni non subiremo le persecuzioni di uno stato totalitario basate sulle informazioni che noi stessi abbiamo reso pubbliche in totale buona fede in questi anni di sfrenata e spensierata condivisione.
Negli ultimi 15 anni i nostri avatar digitali si sono sempre più attaccati alla nostra pelle reale, rendendo ormai obsoleta la differenza tra i due ambiti. Internet e i social network non risolveranno certo i nostri dubbi esistenziali, ma sta al nostro buon senso, nonché a una sana e diffidente cautela nei confronti di aziende il cui unico scopo è il profitto economico, fare in modo che tutto questo non crei più confusione di quello che c’è già.