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Rita Bernardini assolta: la replica dell’avvocato Rossodivita all’articolo di Carlo Alberto Zaina

Rita BernardiniA seguito della riflessione pubblicata dall’avvocato Carlo Alberto Zaina in merito alla recente assoluzione della politica Radicale Rita Bernardini (pubblicata a questo link) , che era stata accusata di coltivazione ai fini di spaccio di cannabis, abbiamo ricevuto una lettera di risposta da parte dell’avvocato di Rita Bernardini, Giuseppe Rossodivita, che ha ritenuto di voler rispondere all’articolo di Zaina specificando quelle che a suo avviso sono le ragioni della sentenza e le sue possibili conseguenze a livello generale.

Abbiamo accettato di pubblicare integralmente la risposta dell’avvocato Rossodivita, certi che possa trattarsi di una lettura interessante ai fini di una corretta interpretazione di una delle sentenze sulla cannabis che maggiormente hanno fatto discutere. Eccola di seguito.

Nell’articolo a firma dell’avv. Zaina, dal titolo “Rita Bernardini assolta, e gli altri?”, l’avvocato ha sollevato delle perplessità circa la sentenza assolutoria emessa dal Presidente del Tribunale di Siena, dott. Luciano Costantini, nel procedimento penale che ha visto imputata la Bernardini per detenzione e possesso finalizzato alla cessione di marijuana, con la formula “il fatto non sussiste”.

In particolar modo l’avv. Zaina ha espresso perplessità sulla fondatezza della sentenza; ha affermato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Bernardini la sentenza non potrà rappresentare un precedente significativo; ha espresso perplessità in ordine alla declinata inoffensività – da parte di chi scrive – del fatto contestato “correlata – scrive l’avv. Zaina – al fatto che la cessione doveva essere destinata a soggetti che sicuramente in ragione delle loro patologie traevano benefici terapeutici dalla sostanza stupefacente ed erano dotati di prescrizione medica”.

Conclude, l’avv. Zaina, nel senso di stigmatizzare, il trattamento riservato alla mia assistita, rispetto a quello riservato ai cittadini condannati in situazioni di gran lunga più favorevoli.

Mi permetto, umilmente, di non concordare con alcuna delle
affermazioni dell’avv. Zaina. E spiego il perché.

L’inoffensività, declinata dalla difesa durante il processo e che pare essere stata accolta dal Tribunale in ragione della formula assolutoria utilizzata, non è da porre in relazione, come fa l’avv. Zaina al fatto che “la cessione doveva essere destinata a soggetti che sicuramente in ragione delle loro patologie traevano benefici terapeutici dalla sostanza stupefacente ed erano dotati di prescrizione medica”, bensì al bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 73, comma V, dpr 309/90.

L’offensività della condotta, cioè, deve avere sempre riguardo al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, che nel caso di specie è «quello di combattere il mercato della droga, espellendolo dal circuito nazionale poiché, proprio attraverso la cessione al consumatore viene realizzata la circolazione della droga e viene alimentato il mercato di essa che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico nonché il normale
sviluppo delle giovani generazioni», come statuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza 24 giugno-21 settembre 1998, n. 9973 (ampiamente ripresa dalla giurisprudenza di legittimità successiva, oltre che dalla giurisprudenza recente della Corte Costituzionale, cfr. sent. n. 109/2016 ).

Il fatto di cedere una sostanza ad un soggetto munito di prescrizione medica e che trae benefici terapeutici dalla sostanza è pertanto inoffensivo rispetto a quel bene giuridico tutelato, non ad altri. Ed è intuitivamente evidente.

La lotta al mercato della droga, la cui circolazione si realizza attraverso la cessione al consumatore, trova dunque il suo fondamento nella considerazione per la quale il mercato della droga mette in pericolo: i) la salute pubblica; ii) la sicurezza e l’ordine pubblico; iii) il normale sviluppo delle giovani generazioni.

Nella condotta di cessione o di detenzione al fine di cessione della marijuana a soggetti affetti da patologie curabili con la sostanza e dotati di prescrizione medica non è possibile rinvenire la messa in pericolo né della salute pubblica, né della sicurezza e dell’ordine pubblico, né infine del normale sviluppo delle giovani generazioni.

Non si tratta, infatti, quanto alla salute pubblica, di una cessione a soggetti che ne fanno un uso “ricreazionale” o creato da “dipendenza” (che invero la marijuana è scientificamente acquisito che non ne determina) potendo essere perciò leso il bene della salute pubblica. Che anzi, nel caso di specie, ciò che viene in rilievo è la tutela della salute individuale, diritto riconosciuto dall’art. 32 comma 1 della Costituzione che dichiara: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Non si tratta, quanto alla sicurezza e all’ordine pubblico, di una cessione a soggetti che possono mettere in pericolo la sicurezza e l’ordine pubblico in conseguenza dell’assunzione della sostanza, né di soggetti dediti alla commissione di altri delitti connessi all’uso di sostanze stupefacenti. Non si tratta, infine, all’evidenza, di una condotta che mette in
pericolo il normale sviluppo delle giovani generazioni: si è visto che il SSN seppur a condizioni economiche spesso proibitive per i malati, distribuisce esattamente, quanto al Bedrocan, inflorescenze di marijuana.

Si tratta invece di una inoffensività cristallizzata dallo stesso legislatore che al comma 2, dell’art. 72 DPR 309/90 afferma che: “E’ consentito l’uso terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope, debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto”.

L’uso consentito, dunque, che determina la assoluta liceità della condotta dell’assuntore – a differenza dell’uso ricreativo che è comunque attratto nell’alveo dei comportamenti illeciti
dall’art. 75 Dpr 309/90, seppur non più penalmente sanzionato – rende chiaro come non vi può essere alcuna offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, nella condotta di chi, in presenza dei requisiti indicati dall’art. 72, comma 2 DPR 309/90, quell’uso consenta.

A nulla rileva, come pare sottolineare l’avvocato Zaina, che la norma punisca la condotta incriminata quale reato di pericolo presunto, per cui la punizione vi deve essere indipendentemente dal “titolo” per il quale la cessione è realizzata. Da anni oramai, la giurisprudenza di merito, di legittimità e della stessa Corte Costituzionale, evidenziano come sia necessario e doveroso, da parte del giudice di merito, lo scrutinio in concreto circa l’offensività della condotta contestata.

Già in altro procedimento, scaturito da una nota disobbedienza civile del leader Radicale Marco Pannella che in diretta TV consegnò dell’hashish alla conduttrice Alda D’Eusanio, il Tribunale di Roma mise in evidenza come “(…) Compito del giudice penale è non solo quello di ricostruire il fatto storico secondo le regole processuali ma anche quello di verificare se un determinato fatto corrisponda o meno alla fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice: nello svolgimento di questo secondo compito il giudice non può certo limitarsi ad una comparazione meccanica e asettica tra i due dati – quasi fosse un elaboratore automatico – ma dovrà verificare tra le altre cose se la condotta umana sottoposta al suo giudizio abbia in concreto leso o messo in pericolo il bene giuridico tutelato da quella norma.” (Tribunale di Roma, 2^ sez. penale, sentenza del 10.11.2000, proc. RGNR 20340/95, Imp. Marco Pannella, in relazione alla cessione effettuata in diretta TV alla condittrice RAI Alda D’Eusanio).

Ciò peraltro in linea con i costanti insegnamenti della Corte Costituzionale, per la quale, in forza degli artt. 13, comma 2, 25, comma 2 e 27, comma 3 Costituzione: “(…) _il principio in parola opera su due piani distinti. Da un lato, come precetto rivolto al legislatore, il quale è tenuto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”). Dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (cosiddetta offensività “in concreto”) (sentenze n. 225 del 2008, n. 265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000).

Quanto al primo versante, il principio di offensività “in astratto” non implica che l’unico modulo di intervento costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore l’opzione per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986).

In tale ipotesi, tuttavia, affinché il principio in questione possa ritenersi rispettato, occorrerà «che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991).” (Corte Costituzionale, Sent. 109/2016)

D’altra parte se il giudicante non avesse compiuto lo scrutinio dell’offensività in concreto sarebbe stato evidentemente costretto a rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, come sollecitato a fare in via gradata, per l’evidente violazione da parte del legislatore, del principio di necessaria offensività (in astratto) che trae il suo fondamento negli artt. degli artt. 13, comma 2, 25, comma 2 e 27, comma 3, della Costituzione.

Per queste ragioni, anche in presenza di una eventuale impugnazione, la sentenza ben difficilmente potrà essere riformata e per queste ragioni (necessario scrutinio da parte del giudice dell’offensività in concreto ed inoffensività della condotta contestata riguardo al bene giuridico tutelato dalla norma) che è importante cogliere, la sentenza potrà, ad avviso di chi scrive, rappresentare un utile precedente anche per cittadini altri dalla imputata Rita Bernardini.

Avvocato Giuseppe Rossodivita



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