Rewilding: l’ambientalismo del futuro?
«Oggi sappiamo che ben poco di quanto facciamo è privo di conseguenze ambientali. Amplificando le nostre vite, la tecnologia ci ha concesso un potere sul mondo naturale che non possiamo più permetterci di utilizzare. Oggi, in ogni cosa che facciamo, dobbiamo essere consapevoli della vita degli altri, cauti, vincolati, meticolosi: non possiamo più vivere come se non ci fosse un domani».
Questa frase condivisibile, quasi banale, è di George Monbiot, che poi nel libro “Selvaggi” fa quello che non ti aspetti: lancia una sfida radicale ad alcuni modelli conservazionisti propri dell’ambientalismo come lo conosciamo. La proposta dello scrittore britannico è quella di smetterla con il “conservare” per permettere invece ai processi ecologici di rimettersi in moto. In inglese c’è una parola per indicare questa prospettiva ed è rewilding – la traduzione “rinaturalizzazione” non rende giustizia perdendo qualla sfumatra “selvaggia” che è invece fondamentale.
«In paesi come il mio, il movimento ambientalista, seppure ben intenzionato, ha cercato di congelare nel tempo i sistemi viventi. Vuole evitare che animali e piante lascino o entrino, in determinati ambienti. Ha tentato di gestire la natura come si bada a un giardino».
La tesi del libro pubblicato nel 2013 ma solo nel 2018 in Italia, edito da Piano B edizioni, implica che l’uomo faccia un passo indietro e ridimensioni la sua visione antropocentrica. Una nuova direzione che secondo Monbiot proprio l’Europa sarebbe chiamata a intraprendere per prima puntando sul ritorno della sua grande fauna estinta. L’autore non propone di confiscare terre produttive all’uomo per restituirle alla natura, bensì lasciare alla rinaturalizzazione quelle aree poco produttive nelle quali l’agricoltura resiste solo grazie ai sussidi.
Rewilding significa lasciare alla natura la possibilità di autodeterminarsi senza sapere esattamente cosa ne emergerà. Siete pronti all’avventura?