Rapterapia: la musica come cura per piccoli e grandi casini esistenziali
Quando alcuni psicoterapeuti hanno riconosciuto nel rap uno strumento attraverso cui far emergere i vissuti dei ragazzi con più facilità rispetto alle classiche sedute frontali con lo psicologo, Marco Zuliani, noto nella scena rap come Zuli, ha pensato che sarebbe stato bello dare a tutti questa opportunità. Così cinque anni fa mette su l’associazione Large Motive e il LABORATORIORAP TERAPEUTICO® per coniugare elementi terapeutici a vari livelli con la musica Rap / Trap. Un metodo, quello di utilizzare il rap come strumento di promozione della salute e del benessere, dapprima sperimentato in contesti protetti come le comunità terapeutiche per minori, poi nelle scuole e nelle strutture educative territoriali. Sempre con successo, tanto che oggi Zuli è alle prese con la formazione dei primi rapper per moltiplicare gli interventi.
Partiamo da te: come ti sei avvicinato al rap?
Ho conosciuto la musica rap e la cultura hip hop all’inizio degli anni novanta, avevo scoperto attraverso MTV il programma che selezionava videoclip del genere “Yo! MTV Raps”, sono stato rapito da subito da quel modo di comunicare e atteggiarsi che vedevo fare nei video americani.
All’epoca era l’unico programma che trasmetteva cose del genere in Italia, di lì a poco ho cominciato a cercare riferimenti di questo fenomeno nel mio paese e nella mia città. Spendevo i soldi racimolati dalle mie “paghette” e i piccoli risparmi, in vinili di importazione che ascoltavo di nascosto sul giradischi Pioneer a cinghia di mio padre, insieme alla sua collezione di dischi perché in qualche modo mi raccontavano anche la sua storia e chi era stato fuori dal contesto famigliare. Avevo voglia di conoscere tutto, specialmente in un ambito in cui la comunicazione verbale ha sempre avuto delle difficoltà e ho trovato la musica… o è stata lei ha trovare me.
E siete diventati una cosa sola…
Credo che la cosa che mi ha coinvolto maggiormente sia stata l’opportunità di sentirmi speciale e riconoscibile nel contesto in cui vivevo: all’epoca le alternative di aggregazione erano l’oratorio e la discoteca la domenica pomeriggio.
Ci chiamavano rappusi, indossavamo pantaloni e felpe oversize, sentivamo forte la voglia in noi di fare la differenza e rappresentare il posto dal quale venivamo, ovunque e non perdendo mai, peraltro, occasione di farci notare: il nostro atteggiamento, il nostro stile, il nostro marchio, il nostro flow è il nostro bisogno di appartenenza e di identificarci in qualcosa che avevamo creato da zero. Eravamo orgogliosi di rappresentare qualcosa, per noi stessi in primis e per le nostre Crew.
Autori di qualunque statura potrebbero parlare all’infinito del potere salvifico della scrittura. Raccontarsi per scritto è un modo per capirsi meglio. È così anche nel rap?
Assolutamente sì, la scrittura è un viaggio dentro se stessi, una grande opportunità di conoscenza. Di solito chi non è abituato a scrivere o crede di non essere portato a farlo trova come unica difficoltà quella di vergognarsi nel relazionarsi con le proprie emozioni e nel rielaborare i propri vissuti. Nel rap, superato questo ostacolo, arriva il bisogno di verbalizzarlo e divulgarlo a tutti, di farlo conoscere, un percorso dove essere se stessi indiscutibilmente esorta al volersi sentire speciali ed emergere, mettendosi in relazione con il mondo.
La musica può essere utilizzata come strumento terapeutico, l’hai sperimentato su te stesso?
Sì, il relazionarsi e connettersi maggiormente con se stessi può portare a elaborare piccoli e grossi casini esistenziali. Nel mio caso naturalmente è andata proprio così. La prima canzone che ho scritto si chiamava “Ti detesto” e se guardo al mio percorso artistico riconosco la cronaca dei momenti più spensierati e faticosi della mia vita.
Poi, un giorno, l’idea del laboratorio rap. Perché?
Tutto è iniziato da un incontro con Don Domenico Cravero, fondatore di Terra Mia Onlus, cooperativa che già negli anni ottanta si occupava nelle periferie torinesi di offrire l’agricoltura sociale come alternativa al disagio delle tossicodipendenze.
L’idea originale era quella condividere con i ragazzi il mio metodo di scrittura, senza la pretesa di insegnare nulla a nessuno: l’obbiettivo non è quello di convincere i ragazzi a fare i rapper, ma quello di riconoscere nel rap una opportunità per riuscire a impegnarsi ed esprimersi in maniera libera da ogni giudizio. Così ho portato la mia esperienza artistica, fornendo loro gli strumenti necessari per trasformare i loro vissuti e le loro storie in musica. Ho capito anche grazie a loro quanto è vero che l’entusiasmo verso qualcosa può davvero riuscire a cambiare e dare un senso alle nostre vite.
Che storie portano questi ragazzi?
Variano a seconda del contesto. In moltissimi casi ho incontrato ragazzi e ragazze che nei loro testi raccontavano di violenze subite e di gravi mancanze ricevute dalle figure genitoriali.
Qual è la più grande paura?
Mi viene in mente una citazione tratta dal film “Coach Carter” : “…Se noi lasciamo la nostra luce splendere, inconsciamente diamo alle altre persone il permesso di fare lo stesso… appena ci liberiamo della nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri”.