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Rapropos: il rap e la società francesi raccontati da Luca Gricinella

Rapropos: il rap e la società francesi raccontati da Luca GricinellaNon è un caso che questa intervista nasca qualche giorno dopo la proclamazione del nuovo premier francese Hollande. Cosa c’entra col rap, vi chiederete. Luca Gricinella è un giornalista free lance già redattore per Alias, Il Manifesto, Rumore, Superfly e altri, autore tra l’altro di un bellissimo articolo sull’incontro tra rap e Islam. Ebbene, attraverso le pagine di “Rapropos” (a proposito di rap nello slang verlan) Gricinella, italianissimo, ci invita nel macrocosmo hip hop francese e ci spiega come questo abbia la peculiarità di influenzare, più di ogni altro genere e più di ogni altra parte del mondo, la sfera politica, sociale e culturale del Paese. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di parlare con lui della bagarre Hollande-Sarkozy (e di come i rapper siano entrati nella campagna elettorale), degli spunti sociologici che può offrire il movimento hip hop, de L’Odio di Kassovitz e di cosa può differenziare culturalmente il rap francese da quello italiano e quello americano. Centosettanta pagine, edite da Agenzia X, di notevole fattura. Lettura consigliatissima da myHipHop.it.

Salve Luca, benvenuto sulle nostre pagine. Cominciamo dalla strettissima attualità: Hollande è il nuovo premier francese, dopo aver battuto al secondo turno un Sarkozy in rimonta. Seppure nella famigerata banlieue di Clichy-sous-Bois (il baricentro della rivolta partita nei quartieri dopo l’uccisione di due ragazzi nel 2005) si sia avvertito una rinnovata fiducia nella politica, si può dire che –stando ai dati- la vittoria della sinistra non sia la vittoria dei quartieri popolari, astenuti nella maggior parte dei casi. Come mai?
I quartieri sensibili in Francia sembrano appartenere a un’altra nazione: il paesaggio urbanistico e quello umano differiscono molto da quelli delle città confinanti o distanti pochi km da queste zone. Si compie un breve tragitto in metropolitana o con i treni delle ferrovie suburbane e la sensazione è quella di aver sconfinato. Questo si può considerare un dato di fatto e non è conseguenza di una scelta degli abitanti dei quartieri popolari. Se poi capita che si affermi un politico impegnato a non far sentire francesi i suoi connazionali di origine africana, specie gli oppositori, i disubbidienti o i meno abbienti, la reazione può anche determinare un inasprimento del conflitto e un’ulteriore chiusura, aumentando di fatto l’esclusione di un’intera fascia di popolazione dalla vita di un paese. Di recente nei reportage sull’astensionismo nelle banlieue si è sentito anche dire che è dal 1981, dall’anno in cui è stato eletto il primo presidente di sinistra, Mitterand, che i “banlieusard” aspettano di vedere il cambiamento. E a dirlo era un ventenne. La disillusione è radicata. Che poi in queste elezioni abbia fatto la sua parte la tentazione di sbarazzarsi del politico che si è proposto come nemico pubblico numero uno delle banlieue, è probabile. Essersi sbarazzati di Sarkozy è stato il primo, necessario passo per ricominciare a sperare.

Rapropos: il rap e la società francesi raccontati da Luca Gricinella“Rapropos” è una pubblicazione che illumina sulla peculiarità del rap francese, che più di ogni altro genere riesce a influenzare la politica e le alte cariche dello Stato e di rimando condiziona l’opinione pubblica. Dunque non è un caso che Hollande abbia utilizzato come sottofondo alla sua campagna politica “Niggas in Paris” di Jay-Z e Kanye West. Che ruolo ha avuto il rap in Francia in questi ultimi mesi?
Rapper che hanno invitato al voto le banlieue (vedi Axiom), altri che hanno fatto uscire un nuovo album in cui lanciano messaggi non certo accomodanti e nelle interviste hanno invitato a non condannare gli astensionisti (vedi La Rumeur), altri ancora che hanno preso le distanze dai politici perché scottati da precedenti esperienze (vedi Disiz) e via così. Molti non si sono espressi e nel complesso c’è stata meno partecipazione rispetto al 2007, quando lo choc per l’approdo di Le Pen al ballottaggio del 2002 era ancora caldo. In ogni caso la presenza del rap anche questa volta è stata visibile. Hollande ha addirittura assunto Bruno Laforestrie, fondatore della radio hip hop parigina Générations e ideatore appunto del video girato in banlieue con Nigga in Paris come colonna sonora: questo già la dice lunga sul valore acquisito negli anni dalla cultura hip hop, non solo nelle banlieue ma in tutta la Francia. Per finire, Mélenchon, il candidato del Front De Gauche, al primo turno votato da circa l’11% degli aventi diritto (anche se i sondaggi lo davano intorno al 15%), ha citato Gil Scott-Heron. Non credo sia possibile immaginare un politico italiano, al di fuori di un racconto di finzione, fare scelte simili, ma la Francia è il secondo mercato rap al mondo dopo gli Usa, dunque oltralpe si può (e forse si deve) fare.

Tralasciando per un momento la Francia, ti chiederei perché il tuo interesse da studioso di sociologia si è soffermato su un genere come l’hip hop: che spunti sociali ha, insomma, rispetto ad altre culture.
No, aspetta, non sono un sociologo. Semplicemente l’aspetto sociologico della musica mi interessa molto di più di quello tecnico. L’hip hop nasce per le strade del Bronx, in determinate condizioni storiche e sociali. Si potrebbe dire lo stesso del dubstep a Croydon, per esempio. E così via per altre sottoculture o generi musicali. Artefici volenti o nolenti, ci sono delle condizioni che determinano lo sviluppo di questi fenomeni musicali in quei luoghi, in quegli ambienti e in quelle epoche. A prendere in considerazione solo il ramo musicale dell’hip hop si trovano le sue principali radici in jazz, soul e funk. Ma queste sono solo le principali e solo della parte musicale. Insomma l’hip hop è una cultura-contenitore emblematica, un frutto della società contemporanea che, specie grazie alla musica, è arrivato in alcuni paesi ancora prima che l’odierna composizione sociale si affermasse. È nato oltre trent’anni fa e continua a essere la colonna sonora più credibile del presente.

Perché un giornalista italiano pubblica uno studio sul rap francese? Al quesito hai già dato risposte più che esaurienti tra le righe del libro; ma c’è qualche aspetto del movimento italiano di questi anni che meriterebbe una maggiore attenzione sociologica?
Di solito uno sguardo esterno dovrebbe dare meno aspetti per scontati, prima di tutto perché meno coinvolto in certe dinamiche. La Francia inoltre è qui di fianco a noi e gli scambi con l’Italia, soprattutto culturali, sono continui. Nello specifico si tratta di rap in una lingua parente della nostra, venuto alla ribalta nei primi anni ’90, quando anche da queste parti i mass media si interessavano al rap in italiano nonostante potesse dar fastidio alla borghesia benpensante. Oltralpe è stato un crescendo, qui l’euforia di un vero e proprio movimento è venuta meno nel giro di circa quattro o cinque anni. Ecco un aspetto del rap italiano che sarebbe interessante approfondire: l’affermazione della versione giovanilistica a scapito di quella più impegnata e di denuncia. Servirebbe un’analisi a tutto tondo che parta dalla scena, approfondisca le dinamiche del nostro mercato musicale e il livello delle relative strutture, senza ignorare le condizioni sociali e politiche degli anni in questione. Un lavoro da fare in team o, come si sarebbe detto nei primi anni ’90, collettivo.

Rapropos: il rap e la società francesi raccontati da Luca GricinellaMolti dei rapper che citi lungo Rapropos utilizzano liriche molto forti e dirette. Se da un lato questo ha causato alcuni provvedimenti giudiziari ai danni degli artisti, dall’altro ha una cassa di risonanza molto ampia. Come viene recepita tale crudezza dai fruitori di rap, dunque dalla maggioranza dei cittadini francesi?
Be’, per i francesi il rap è forte e diretto. Anzi, di più, è esplicito e sboccato, radicale e scomodo, fa controinformazione, fornisce punti di vista inediti per la massa, anima il dibattito pubblico, partecipa da tempo alla vita culturale del paese. A volte dà molto fastidio proprio perché alcuni rappresentanti dello stato puntano il dito su una rima specifica, tutta la stampa allora ne parla e di conseguenza una parte della popolazione, quella che ha meno a che fare con questo linguaggio – presumibilmente la Francia profonda – non può che indignarsi. Un’azione fomentatrice che chiaramente non vuole spiegare cos’è il rap, dove nasce e da dove arriva, ma indirettamente crea i presupposti perché si parli anche di queste origini e di questi tratti… è raro ma può accadere, ci sono insomma giornalisti che sentono di dover approfondire per riuscire a spiegare il fenomeno al pubblico. E c’è un pubblico di insospettabili che recepisce.

L’hip hop francese, ovviamente, non si esaurisce nella sua sfaccettatura più impegnata, cioè quella più pregna di significato, ma ha anche variabili soulful, più hardcore ma meno impegnate e anche mainstream. Ma quale è quella più caratterizzante, più apprezzata?
“Nessuno guarisce dalla proprio infanzia” rappa Oxmo Puccino. Il 90% del rap francese arriva dalla banlieue, dove le condizioni di vita sono quelle che si vedono in film come “L’odio” o “La schivata” o si leggono in romanzi come “Casino totale” e “Già noto alle forze di polizia”. Non solo insomma quelle che si sentono descrivere nel rap. E gli abitanti di quelle zone sin da bambini non hanno bisogno dell’arte per rendersi conto della situazione. Il percorso che il rapper intraprende crescendo, lo stile in cui si riconosce, condiziona il modo di raccontare ma non cancella queste origini. Così nel rap francese i muscoli incontrano la denuncia mentre coscienza e impegno nascono anche da rabbia e voglia di rivalsa. Ma questi sono solo alcuni dei tratti che si possono individuare. Ce ne sono tanti altri. L’aspetto comune è appunto l’impronta “banlieusard”.

Rapropos: il rap e la società francesi raccontati da Luca GricinellaPer buona parte degli appassionati italiani, se dici rap francese dici “L’odio”, il film di Mathieu Kassovitz del 1995. Alcuni studiosi postcoloniali che citi in “Rapopros” lo definiscono un film sopravvalutato: tu sei d’accordo con loro, lo consideri un caposaldo, o preferisci una via di mezzo?
L’odio è servito a portare alla ribalta internazionale la questione delle banlieue. In patria è comprensibile che sia stato anche criticato perché chi era già addentro quella realtà non poteva digerire facilmente certi cliché narrativi (vedi per esempio il trio protagonista, un “black”, un “blanc” e un “beur”). Per quanto mi riguarda resta un film fondamentale, in cui si possono trovare anche alcune figure controverse ma significative a livello narrativo, come il poliziotto “buono” di origine maghrebina che tenta di mediare tra i ragazzi e i suoi colleghi “cattivi”: il suo fallimento fa venire voglia di capire quelle dinamiche conflittuali e dunque spinge ad approfondire il ‘fuori campo’ del film. Qui da noi, sui ventenni di allora, specie tra i patiti di hip hop, L’odio ha avuto un impatto incredibile: lo confermano tutte le rime italiane che lo citano… sono una miriade, e provengono anche da mc di generazioni successive.

Dell’unicità del rap francese pare se ne siano accorti anche oltreoceano. Le collaborazioni con artisti americani sono diverse: credi che negli States abbiano capito la potenza sociale dei rapper francesi?
Non credo che gli americani in ambito rap abbiano bisogno di sfruttare talenti stranieri. In molti casi, come sai, l’hip hop in quanto movimento crea facilmente connessioni internazionali. Nonostante la Francia abbia la nomea di paese europeo più antistatunitense, l’ambiente hip hop transalpino ha un rispetto incredibile per gli Usa, da cui ne è davvero affascinato. Se Booba è andato a vivere a Miami anche perché, ha dichiarato, lì la polizia non lo ferma a causa del suo aspetto, Akhenaton nell’autobiografia parla dei suoi viaggi oltreoceano come momenti formativi fondamentali. E queste sono solo due delle voci più note in merito. Ok, la presenza di MC Solaar nel primo volume di Jazzmatazz dice anche che negli Usa c’è un occhio attento al rap francese da tempi non sospetti. Di certo le strutture americane hanno preso atto delle potenzialità commerciali che il rap ha in Francia. Di certo tra colleghi rapper ci può essere stima e rispetto nonostante le grandi distanze.

Religione, omosessualità, sessismo, identità nazionale o calcio: mainstream è avere la capacità di influenzare tutti questi ambiti culturali e sociali, oppure raggiungere un numero di vendite elevato?
In Francia sono due aspetti che vanno spesso a braccetto. Negli Usa, per esempio, è più facile che uno escluda l’altro. Noi invece ci teniamo Jovanotti perché adoriamo chi si redime, specie se è stato formato da Cecchetto o Boncompagni. Vabbè, battute a parte, non saprei dirti cosa è davvero mainstream. Posso dirti che in Francia il rap è davvero popolare, tanto che un pensionato sa chi sono Akhenaton, Joeystarr, Diam’s, Booba e Rohff. Basta guardare la tv e questi artisti diventano familiari. Nel libro azzardo il paragone con chi fa satira in Italia, anche per le querele dei politici e i tentativi di censura di cui sono oggetto. Come dire: noi ci ridiamo sopra, oltralpe non proprio…

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Nicola Pirozzi



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