Quello che la storia del presepe ci dovrebbe insegnare
“Ho tanto male… Credo che voglia nascere”. La giovane donna fissa con occhi imploranti suo marito. L’uomo fa di tutto per bloccare l’urlo che sente scoppiargli in petto. Disperato, non sa cosa fare.
Certo non può mostrarlo alla sua donna. Non in questo momento. Sono in una terra a loro sconosciuta. In fuga. Da mesi. Il loro paese è dilaniato dalla guerra. Il tiranno uccide senza pietà. Neanche per i bambini. Quelli che gli si oppongono usano gli stessi metodi.
Sono fuggiti col poco che avevano in cerca di un po’ di pace, di un luogo sicuro in cui mettere al mondo e crescere la propria creatura. Ed invece… Quel piccolo angolo di pace, se davvero esiste, è ancora lontano ma intanto la vita impone le sue scadenze. È notte. Una notte buia come la pece.
L’uomo abbandona tutte le sue cose e prende in braccio la piccola donna. “Ce la faremo… Ce la faremo”, le sussurra baciandole la fronte.
Avanza, con quel corpo che sussulta per il dolore, fino ad incontrare una baracca abbandonata. Adagia la sua compagna in un angolo e corre a cercare aiuto. Una casa, delle luci alla finestra. Bussa disperato. Chiede aiuto, ma non lo capiscono. Quei contadini parlano un’altra lingua.
Allora spiega a gesti la sua piccola tragedia. Un uomo ed una donna lo seguono. Appena arrivata, la contadina capisce che non c’è più tempo. Rispedisce il marito a casa dandogli degli ordini secchi. Quando quello ritorna con dell’acqua calda, delle forbici e degli asciugamani, butta fuori i due uomini.
E comincia l’attesa. Vincerà la vita o vincerà la morte? Un parto, in quelle condizioni, è davvero una tragica scommessa. Urla di dolore squarciano il cielo. Il profugo si stringe la testa tra le mani. Piange. Silenziosamente. Ancora urla, ancora grida di dolore…
Poi, un silenzio che seppure dura pochi secondi sembra eterno e terribile. Un pianto. Ha vinto la vita. Si chiamavano Giuseppe e Maria e chiamarono il loro bimbo Gesù. Oppure no. Si chiamavano Abdul e Samira e lo chiamarono Selim. Poco importa.
Il presepe è la rappresentazione dei mali del mondo, di quelli peggiori. Da sempre. Dei poveri profughi, la guerra, tiranni e bande di assassini, paura, parti non assistiti, fame. Da più di 2000 anni.
Il presepe urla ed invoca la soluzione di questi problemi. È denuncia, preghiera, interrogativo, non tradizione. Invoca pace, pretende solidarietà e ha i colori del mondo.
Gesù, Giuseppe e Maria avevano la pelle scura. Parlavano una lingua straniera. Erano insieme il racconto straordinario della vita e delle sue tragedie.
Provo sinceramente orrore per chi in questi giorni invoca presepi e ne occulta il vero significato. Provo disgusto per chi in nome del presepe fa guerra ai suoi veri protagonisti. Mai come quest’anno, con le sue infinite sciagure, il Natale, questa piccola grande storia di una famiglia in fuga, deve interrogare chiunque. Chi crede e chi non crede.
Soprattutto chi crede. Gesù, il vostro salvatore, nacque, scelse di nascere, con la pelle scura. Povero e profugo. Gli fate guerra? Il mondo ha bisogno di pace, di uno spirito di solidarietà nuovo, l’unico capace di illuminare le notti tristissime di coloro che sopportano, anche oggi, la follia devastatrice della guerra e dell’ingiustizia.