Pusha T – "My Name is My Name" (Recensione)
“This is my time, this is my hour / This is my pain, this is my name, this is my power ”
Dai, “My Name is My Name” di Pusha non è male. Di solito considero buono un disco se mi offre almeno un numero di brani degni di nota superiore di 1 alla metà dei brani totali. Gusti e matematica insomma. Fatto sta che Pusha T è riuscito nell’intento di soddisfare questo mio difficile e articolato metro di giudizio. Piccola premessa: non è sicuramente un disco clamoroso, dato che “Yeezus” e “MGHG” hanno chiuso definitivamente i giochi da un bel pezzo. Pusha butta fuori un disco tematicamente semplice, perfettamente inserito nel wave del momento che vuole basi scarne, flow curato e pesato con ottime skills metriche. Pusha passa oltre il classico trend in cui si glorifica una vita dedita al crimine e decide di rifletterci sopra, di ripercorrere la sua fuga dal gioco della droga e il suo inevitabile imprigionamento nel mondo delle rime e dell’espressione.
“Painted my heart, it’s as black as my skin / They tippin’ the scales for these crackers to win / No readin’ no writing, made a savage of men / They prayin’ for jail, but I mastered the pen / Descended from kings, we at it again”
Le dope tracks sono sicuramente “King Push” – un’intro davvero ben scelta, “Numbers on the Boards” che vi farà saltare sulla sedia (cit. Mecna), “Nosetalgia” in cui Pusha si appoggia con ottimi risultati al (solito) metricamente e stilisticamente stupefacente Kendrick Lamar. “Hold On” è un pezzone, mentre la piacevole (ma non di più) “Let me Love” stacca dal mood trainante dell’album. Infine “40 Acres” e “Pain” si meritano sicuramente stelle in più rispetto ad altri pezzi, ma in entrambe è forse troppo evidente la presenza spirituale di padre Kanye West che si fa sentire mentre comanda i fili dei suoi discepoli.
L’influenza di West è palpabile poi in molti altri aspetti del disco, pazzesche alcune sfumature nel flow di Pusha che ricalcano palesemente lo stile e l’impostazione di Kanye. Viste le manie di grandezza non sempre celate del boss della G.O.O.D Music, non mi sorprenderebbe a questo punto l’ipotesi che Kanye stia tentando di diffondere uno standard musicale ed espressivo a sua immagine e somiglianza artistica. Pensate anche a quanto in certi aspetti risulti simile Big Sean (durante la sua permanenza in G.O.O.D Music). Ok, forse è esagerata come cosa.
Lasciando stare le apocalittiche visioni del Kanye burattinaio, dedichiamo le ultime parole al disco di Pusha, perché alla fine il disco è suo. Capitolo featurings e produzioni: oltre a Kendrick, l’unico a stupire e a regalare una strofa all’altezza delle aspettative del proprio nome, compaiono nella lista anche i nomi di Rick Ross, Pharrell (forse ancora troppo scosso dai bei momenti passati nel video di “Blurred Lines”), Kelly Rowland, 2 Chainz e Big Sean, Future e Chris Brown.
Per quanto riguarda le produzioni spiccano sicuramente Nottz, che sgancia un macigno in “Nosetalgia“, Swizz Beatz cura i dettagli di “Sweet Serenade” senza darsi nemmeno troppo da fare e ancora una volta le produzioni migliori sono dannatamente targate Kanye West (vedi “King Push“, “Numbers on the Boards“, “Hold On” e “Pain“).
Tutto sommato quindi il disco non è male. Un prodotto interessante perché le 7 track superano proprio di uno la metà esatta del disco e per etica mia personale l’album rientra nella cartella dei “da ascoltare”. Pusha T ha talento, buone skills metriche e una voce che calza veramente bene sui suoni odierni. Il problema è che deve svezzarsi da Kanye, proponendo qualcosa di più originale che vada al di là delle scelte di business discografico – visto che in alcuni punti il disco sembra un’appendice di “Yeezus“. In ogni caso “My Name is My Name” può occupare tranquillamente un po’ di spazio sul vostro lettore Mp3. Potenziale.
______________________________________________________
Mattia Polimeni