Principi di obsolescenza programmata
Correva l’anno 1924 quando le principali aziende produttrici di lampade a incandescenza si dettero appuntamento a Ginevra. Nella città svizzera si ritrovarono industriali europei e americani, con un obiettivo ben preciso: cercare un accordo comune che riguardasse la longevità dei loro prodotti. C’era infatti un dettaglio non da poco che riguardava le lampade, brevettate nel 1880 da Thomas Edison: duravano troppo, e in questo modo i profitti erano limitati. L’accordo, che passò alla storia come “Cartello Phoebus”, portò la durata delle lampadine da 2.500 ore a 1.000 ore; si tratta del primo esempio di obsolescenza programmata.
Dai tempi del “Cartello Phoebus” ne è passata di acqua sotto i ponti. Per restare nel campo commerciale, siamo stati letteralmente invasi da prodotti con tecnologie sempre più sofisticate. E la durata dei dispositivi che intasano le nostre tasche o le nostre borse è diventata una questione centrale. Di recente una sentenza dell’Antitrust ha punito Samsung e Apple, i due principali colossi mondiali produttori di smartphone, proprio a riguardo di obsolescenza programmata. Ovvero, per aver indotto i loro utenti a installare nuove versioni dei sistemi operativi dei loro dispositivi in modelli vecchi che, a causa dell’aggiornamento, pativano prestazioni peggiori.
La questione, al di là delle sanzioni, è molto dibattuta: perché riparare un prodotto appena danneggiato – si pensi allo schermo di uno smartphone in frantumi – può costare di più rispetto all’acquisto di un nuovo dispositivo? In Francia, dal 2015, l’obsolescenza programmata è diventata un reato; la multa può variare in modo proporzionale ai vantaggi della violazione. Da questa legge sono partite una serie di class action contro la Apple; nel 2017, l’azienda fondata da Steve Jobs ha inviato una lettera di scuse ai suoi clienti.