Pharoahe Monch – W.A.R – We Are Renegades (recensione)
Quando si scopre che è uscito un disco di Pharoahe Monch si è sempre in trepida attesa. Si sa bene di quali capacità sia dotato Mr Jamerson, anche alla soglia dei 40 anni; tutti abbiamo negli occhi i fasti degli Organized Konfusion, e se in gruppo di rappusi si strilla “gheddaffacca”, si sa che molto facilmente si otterrà come risposta un “Simon Says: GHEDDAFACCA!”
“We Are Renegades, this means WAR”, ci viene cantato con il battagliero Immortal Technique, e in effetti il disco è bello carico e tosto. Le liriche, infatti, ci giungono direttamente dalle registrazioni del satellite militare Horus, mandateci dal Luogotenente Gaviston come avvertimento da Kabul. O meglio, questo è il testo, scritto direttamente dal monaco, con il quale ci viene introdotto, in un intro recitato dall’attore Idris Elba (io personalmente lo conosco meglio come Mumbles, direttamente dal Mucchio Selvaggio di Rocknrolla) e già questo ha parzialmente accontentato le mie aspettative e mi ha gasato per bene.
Si passa a “Calculated Amalgamation”, con quel pauroso beat da trincea e ad “Evolve”, sul quale Exile – uno dei produttori che più si sono fatti notare nell’ultimo periodo – mescola un campione vocale incredibile al fiato di qualche tromba: il risultato è una piccola meraviglia.
Phonte, un altro che come abbiamo scritto quest’anno si è fatto notare, dispensa un messaggio di pace, a guerra ancora in corso, con l’invito “Turn the cheek, let it slide, give me five on the black hand side!”, firmando assieme a Styles P uno dei singoli del disco, che nel frattempo vive un calo, passando per il beat un po’ troppo sperimentale di “Hallie Selassie Karate”. Ma è soltanto la quiete prima della tempesta, che sfocia nel pezzo più potente del disco: “Assassins”.
“Assassins” non si può ascoltare a volume basso; Jean Grae reppa meglio di tantissimi uomini e ce lo dimostra un’altra volta, prima di lasciare spazio a Pharoahe Monch e a Royce da 5’9’. E’ l’assalto finale della guerra del generale Monch, che può congedarsi sul campione di “In the court of the Crimson King”, esperimento in realtà meno riuscito di quello fatto da Kanye West con “Power” e firmare l’armistizio con “Still Standing”, uno dei pezzi più completi del disco. La degna conclusione per un album di valore, che seppur con qualche calo si lascia ascoltare con grandissimo piacere, spinto anche da alcune power hit di spicco.
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Robert Pagano