Perché non si può proibire
Le società umane si reggono sui divieti e sulle proibizioni: ciascuno di noi nasce libero, e per tutta la vita deve combattere per conservare almeno una parte della sua libertà originaria. La storia dell’uomo è precisamente questo cammino simultaneo e contraddittorio verso la libertà (dell’individuo) e verso la costrizione (sociale).
La dialettica fra libertà e dominio è dunque prima di tutto una dialettica fra il singolo e la società – la famiglia, la scuola, lo Stato, l’opinione pubblica, la maggioranza, la Chiesa e quant’altro l’umanità ha saputo escogitare per paura della libertà. La libertà infatti fa male e penetra ovunque: è fuoco e acqua, non terra né aria. Il fuoco della libertà non incendia soltanto il mondo, ma anche se stessi; può essere incontrollabile, può sfuggire e devastare e farci seriamente del male. L’acqua della libertà, a sua volta, scorre in ogni luogo, s’intrufola ovunque, penetra e attraversa e consuma e sbriciola, e a volte è la goccia che tradizionalmente scava la pietra, a volte è la piena del fiume che travolge il villaggio addormentato. La libertà non ha padroni, perché si identifica con noi stessi. Io sono la mia libertà, e nessuno può comandarmi – se non io stesso.
Proprio perché è pericolosa come una tigre selvaggia, la libertà va addomesticata, controllata, e qualche volta fuggita. Ma è un compito che spetta soltanto a noi stessi. Io solo posso controllare la mia libertà, imporle un limite, suggerirle un ripiego, o semplicemente rinunciarvi. La felicità – quello stato di serenità dell’animo che ci lascia vivere interamente nella pienezza del momento presente – è precisamente l’accordo della tigre con il suo domatore, della mia libertà con la mia volontà.
Vivere in società presenta numerosi, indubbi vantaggi: a cominciare dal fatto che ciascuno di noi non deve preoccuparsi di ogni cosa. Ma la divisione sociale dei ruoli, delle professioni, delle funzioni non significa rinuncia alla libertà. Più grande è l’influenza dello Stato, minore è la mia libertà; ma ogni influenza pubblica nella mia sfera privata è sempre e comunque inaccettabile. Lo Stato non può decidere per me sulle mie preferenze sessuali o religiose, sul mio stile di vita o sulle mie opinioni. Soltanto ciò che è pubblico – che cioè ha conseguenze dirette sugli altri – può essere regolamentato dallo Stato; nulla di ciò che è privo di conseguenze sugli altri può essere vietato. Il proibizionismo si fonda su una premessa illegittima: lo Stato infatti non è autorizzato a proibire l’alcol, o la cannabis, o l’eroina, non più di quanto possa mettere fuori legge l’islam o l’eterosessualità, la carne rossa o gli sport estremi.
Il proibizionismo è destinato sempre a fallire, perché applica alla sfera dell’individuo i metodi polizieschi che lo Stato impiega nella sfera pubblica. Ma la libertà del singolo non è comprimibile, e prima o poi si prende la rivincita. Soltanto io posso decidere se essere musulmano o buddhista o ateo, se mangiare carne o diventare vegetariano, se fumare l’erba o le sigarette o nessuna delle due o entrambi.
La disobbedienza civile è precisamente questa costanza della libertà a fronte del muro proibizionista: è l’acqua che lentamente lo erode, e che un giorno lo travolgerà. Continuiamo dunque a fare liberamente tutto ciò che vogliamo, purché questo non rechi danno agli altri esseri senzienti: ne abbiamo pieno diritto.