Perché l'hip hop italiano ha bisogno dei live di Salmo e Ghemon
Un balletto di Ghemon all’Arena Arco del Sacramento (Benevento), 28/07/2014.
PH: Angelo Cusano per BlowSuffer Photography
Mai come negli ultimi mesi si parla di “dischi d’oro” per progetti rap italiani. Sebbene la certificazione avvenga ora con numeri molto meno esigenti (si parla di 25’000 copie vendute), il dato fa riflettere e porta in dote più di un quesito. Qualche giorno fa è toccato a “Kepler” di Gemitaiz e MadMan riuscire nell’impresa già raggiunta da “Mea Culpa” di Clementino, “A’ verità” di Rocco Hunt, “Mercurio” di Emis Killa, “Midnite” di Salmo, “Bravo ragazzo” di Guè Pequeno, “Guerra e pace” di Fabri Fibra e pochi altri. Insomma, in pochi mesi sono stati una decina i lavori cha hanno avuto un forte impatto discografico, coadiuvato spesso dal lavoro di una major che producesse a tutti gli effetti il disco, oppure che lo distribuisse in esclusiva. Il genere è dunque diventato più o meno effettivamente di massa e negli ultimi anni ha saputo mantenere una costanza di rendimento numerico francamente inaspettata.
Non esistono statistiche attendibili sull’età media dei maggiori fruitori di questi progetti, ma basti dare un’occhiata alle foto di instore e concerti per affermare che poi non sia tanto alta. E allora, diciamoci la verità: il rap italiano può essere considerato dunque un genere mainstream, capace però di attecchire in larga parte su ragazzini non troppo esigenti e nemmeno troppo esperti. In pratica, un genere di facile assimilazione, da giovani (solo per) giovani. E i ragazzini si sa, sono parecchio volubili e le mode vanno via così come vengono. Tocca allora capire quali siano le corde da toccare per avvicinarsi anche ad orecchie più scafate: per chi scrive, in questo senso, è decisivo l’aspetto live.
Avete mai assistito ad un concerto rap italiano? Bene, allora saprete che per aizzare la folla basta una di quelle presunte super tecniche chevaivelocecomelaluce, cosa che assieme al “quando dico A rispondete B” fa parte del processo di intrattenimento che è fondamentale per un mc, ma che effettivamente per chi non mastica rap non deve essere il massimo del divertimento. In queste righe non si propone di fare a meno dell’edutainment tanto caro a KRS One e ai pionieri, ma anzi di inglobarlo in un’idea di concerto vera e propria, non solo buona per muovere testa e mani a tempo e per caricare sul tubo tutti i video del live. Perché il rap è musica, e fino a prova contraria ai live si va per divertirsi, non per stabilire chi è l’mc più forte in extrabeat.
Salmo in stage diving nel 2011
Salmo ha per primo stravolto un po’ le regole del gioco, puntando al concerto come vero motore trainante: ad un live Machete si poga, ci sono stage diving e più che video e foto sul cellulare rischiano di rimanerti bei ricordi impressi nella mente. Bello, no? Di tutt’altra pasta lo show di Ghemon per “ORCHIdee”, il disco che lo ha avvicinato a sonorità strumentali e al lavoro di ensamble: ad un live dell’artista avellinese troveremo invece coristi, una band di grosso spessore musicale e un mc che sul palco balla, saltella e intrattiene il pubblico senza costringerlo ad alzare le mani o rispondere a tono. Certo, il compito è facilitato dalla presenza della band, che nell’immaginario collettivo de-amatorializza a prescindere un live, che viene così svincolato dal cliché “rap-non musica” in quanto composta da due mc’s e un dj.
Quando tra il pubblico si noterà meno cellulari accesi e più gente sorridente e divertita, come accade con Salmo e Ghemon, allora sì che l’hip hop italiano potrà avere la maturità per ambire a diventare un genere mainstream totale.
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