Perché i partiti non parlano di felicità?
La felicità è la grande assente nei programmi politici. Ma è proprio da qui che dovrebbe partire il vero cambiamento. Intervista a un economista che, come tantissimi colleghi a cui i media e la politica non danno voce, sostiene che per sopravvivere dobbiamo essere felici
L’economia fa girare il mondo, è al centro delle scelte politiche e sociali e governa a livello internazionale le sorti del nostro pianeta. Protagonista indiscussa anche di quest’ultima tornata elettorale, nessun partito si è distinto nel ricordare che il benessere psico-fisico delle persone deve essere una priorità e che questo benessere è molto di più che il consumo di beni in funzione di un reddito crescente.
Senza possibilità di smentita possiamo dire che il nostro modello economico non solo è estremamente lontano dagli individui e dalla natura, ma è proprio datato.
Eppure esistono già nuovi modelli di impresa e di economia vicini ai bisogni dei soggetti e delle comunità, rispettosi dei diritti di tutti, compresi quelli del pianeta: dal cibo biologico a km zero agli istituti bancari etici, dai fornitori di energia elettrica condivisa all’abitare partecipativo, sono tanti gli esempi di sostenibilità che puntualmente raccontiamo sulle nostre pagine e che si basano su valori condivisi alternativi. Esperienze che mostrano che si può cambiare avendo come obiettivo la felicità, intesa come ricerca di una migliore qualità nella vita di ciascuno, ma che difficilmente accadrà se non troviamo uomini e donne capaci di trasformare questo obiettivo in un programma politico. Abbiamo bisogno di una politica che non si preoccupi solo della libertà di fare ma che sia in grado di realizzare la libertà di essere.
«La gente vuole altro, vuole un cambiamento reale. Vuole avere più tempo per sé e migliore qualità della vita collettiva.» A dirlo è Stefano Bartolini, prof di Economia politica e sociale all’Università di Siena che da anni scrive libri sulla felicità nelle società avanzate, un tema sconosciuto nei programmi di partiti e coalizioni.

D’altronde non si contano più gli studi che dimostrano l’inesistente o troppo esigua correlazione tra reddito e felicità e sono moltissimi gli economisti che negli ultimi 20 anni hanno messo quest’ultima al centro della loro ricerca. Non li invitano nei programmi in tv né li coinvolgono nelle task force governative perché, dati alla mano, sostengono delle verità molto scomode: la prima è che se il PIL cresce, allora la qualità della vita peggiora, la seconda è che un cittadino impaurito e nichilista, sfiduciato nel futuro e nelle sue capacità di coglierne le opportunità è più facilmente manovrabile.
In tanti paesi occidentali le persone annegano nel malessere – malattie mentali, dipendenze di ogni genere. Ma prof, come mai stiamo messi così male considerato che abbiamo risolto un sacco di problemi fondamentali per l’umanità?
Succede perché la nostra è una società interamente modellata per l’economia. Pensiamo che possedere di più sia la chiave per vivere meglio. Questa è la nostra idea, del tutto errata, di progresso economico. Gli studi sulla felicità dicono che i soldi contano per la felicità ma solo a bassi livelli di reddito. Quello che fa davvero la differenza è arrivare a fine mese oppure no. Quando la gente ci riesce, ulteriori incrementi del suo reddito non cambiano il suo livello della felicità.
E cosa invece la incrementa?
La condivisione, in particolare delle relazioni. La qualità delle relazioni umane è la determinante principale della felicità. La gente che sta veramente male è quella sola, ecco perché non dovremmo puntare sulla crescita economica, cioè sull’aumento del PIL, ma sul miglioramento della qualità delle relazioni fra le persone.
In che modo la politica dovrebbe intervenire?
Per iniziare ripensando le nostre città e limitando lo spazio e l’utilizzo delle automobili. Queste hanno invaso gli spazi comuni, gli spazi pubblici dove i cittadini si fermavano a salutarsi, a conoscersi, a chiacchierare. Si creava il tessuto sociale nei quartieri. Tante città del nord Europa, come Copenaghen o Amsterdam, sono completamente chiuse al traffico privato, la gente la macchina spesso non ce l’ha o non la usa. Usa i mezzi pubblici, la bicicletta o lo sharing. Il risultato è che quelle città sono piene di aree pedonali, di parchi, di zone dove i bambini possono camminare tranquillamente. Questo dimostra che si può cambiare: bisogna riempire le città italiane di spazi verdi, di aree pedonali, di centri sportivi, di posti dove la gente si possa incontrare e sbarazzarsi delle macchine.
Nel suo libro Ecologia della felicità batte molto su un altro cambiamento necessario, quello della scuola. Perché?
Andiamo a scuola a sei anni e il primo giorno ci fanno stare seduti e zitti per cinque ore. È incompatibile con il benessere di un bambino di sei anni. Il primo messaggio che apprendiamo il primo giorno di scuola è ‘non sei qui per stare bene’. Il risultato è che i bambini interiorizzano generalizzazioni del tipo ‘studiare è noioso’, ‘leggere è faticoso’. La scuola è anche una palestra di relazioni, a scuola ci viene insegnato a competere, ci insegnano a obbedire ma ci si dimentica della cooperazione che è la nostra abilità relazionale principale come essere umani. Il risultato è di produrre individui annoiati, passivi, demotivati, disinteressati o addirittura ribelli.
C’è un sistema scolastico a cui dovremmo guardare?
Sì, abbiamo diversi esempi di sistemi scolastici completamente diversi che funzionano perfettamente. Tipo la scuola montessoriana, senza voti, senza competizioni, tutta basata sulla cooperazione tra gli studenti, tutta basata sui lavori di gruppo, sulla partecipazione dei ragazzi e anche dei bambini a tutte le decisioni importanti, incluso su quello che vogliono studiare. I principi della scuola montessoriana sono stati integrati nei sistemi scolastici di interi paesi del Nord Europa: svedese, norvegese, finlandese, danese e olandese. È un tipo di insegnamento che si chiama ‘partecipativo’, è basato su molti dei principi della scuola montessoriana, e gli studi dimostrano che gli studenti che escono da questi sistemi scolastici diversi sono più cooperativi, più attaccati alla loro comunità scolastica, tendono a risolvere i conflitti più in base a principi etici che in base alla forza dei contendenti e oltretutto sono anche migliori sul piano del rendimento scolastico a riprova che non c’è bisogno di stressare la gente per farla studiare. La cosa che funziona meglio è coinvolgerla, appassionarla, dargli spazio e dargli anche la possibilità di studiare con i suoi tempi, perché questo è un altro grossissimo problema della scuola, che insegna che tu non sei padrone del tuo tempo. Le tue scadenze, i tuoi impegni, i professori che chiedono questo e altro: tutto questo è nemico della riflessione, è nemico per la profondità, è nemico dello spirito critico.
La sua tesi è che se troviamo un nuovo equilibrio ne avrebbe vantaggi anche il pianeta, come?
Se noi facessimo crescere i bambini in scuole diverse, otterremmo gente diversa. Che tipo di gente avremmo? Avremmo gente abituata alla condivisione, abituata all’azione collettiva. Gli studi che abbiamo fatto dimostrano che questo tipo di persone hanno molto meno bisogno di consumi. La conseguenza ecologica è questa: se la gente consuma meno, si produce meno e ovviamente si grava meno sul pianeta. Si riesce a vivere bene producendo e consumando meno. Si riesce a vivere più felici.
Quindi lei ribalta il tradizionale messaggio ecologista che dice che per salvare il pianeta dobbiamo fare delle rinunce, vivere peggio.
Esattamente, ritengo che per essere sostenibili dobbiamo vivere meglio, dobbiamo avere di più, non di meno, ma di più di quello che ci interessa veramente, che è importante per la nostra crescita. Sostanzialmente più tempo libero, meno lavoro, più qualità della vita collettiva, città di qualità migliore, scuole di qualità migliore. Quindi condivisione e beni comuni. Se sviluppiamo questo, avremo l’effetto di vivere meglio e di essere pure sostenibili. Non c’è bisogno di fare nessuna rinuncia.