Ozmo: dai muri ai musei con la dignità di un vero artista
Ozmo, che si è formato con i primi tag e puppet negli anni ‘90, evolvendosi ha cominciato a dipingere sui muri vere e proprie opere d’arte, senza mai smettere. All’inizio del 2012 è entrato a far parte della collezione del museo del Novecento di Milano, e a fine anno ha decorato una parete del Macro di Roma, come coronamento di un percorso iniziato da lontano. Nell’opera romana i soldi e il potere schiacciano l’individuo e Ozmo chiama a raccolta per una svolta. 28 metri che rappresentano una Babilonia tutta italiana: studenti che manifestano presi a manganellate, politici che s’ingozzano e la base cupa, con i volti spenti, che tiene tutto sulle proprie spalle. Se la rivoluzione culturale che tutti auspicano per l’Italia deve prima o poi cominciare da qualche parte, questo pare un buon punto.
Come nasce il nome Ozmo?
Il nome nasce dalla tag. Oltre al lettering mi sono sempre interessato all’aspetto figura- tivo concentrandomi sui cosiddetti puppet. L’ho scelto per avere due elementi nella tag che si potessero sostituire con due puppet, essendo la O una lettera intrasformabile e senza stile, con due lettere fighe come la Z e la M che sono invece molto appuntite e spezzettate. E poi ho studiato una firma per cui dalla Z facevo un loop con un tondo sotto per chiuderla in modo equilibrato.
Ogni intervento di writing o street art viene oggi etichettato come “riqualificazione urbana”. Cosa c’è che non va in questo concetto?
Sembra che oggi ci si debba sempre nascondere dietro il concetto di “riqualificazione urbana”. Come a dire “io non sto imbrattando, sto riqualificando”, come se il presupposto fosse che noi abbiamo il culo sporco. Da un lato è un peccato perché si perde tutto il discorso dell’illegalità, della libera espressione e tutto ciò che rappresenta l’uscire dai binari del controllo, visto che molte persone cominciano a dipingere proprio come atto di protesta; dall’altro è paraculo sbandierare questo concetto. Io sono anche per la mediazione, non dico che il writing debba essere sempre e per forza illegale. Ma un bel lettering o una stessa tag fatta bene per me è tranquillamente arte. Se si deve per forza passare dalla riqualificazione per poter dipingere o riappropriarsi degli spazi pubblici e per avere l’approvazione del bottegaio o della sciura benpensante, si parte da una posizione di debolezza.
Qual è il primo disegno che hai fatto che ricordi?
Un topolino della Walt Disney copiato da un librone con tutti i personaggi. Dopo averlo fatto l’ho guardato e ho pensato di averlo disegnato bene: me lo ricordo benissimo quel momento e credo mi sia servito per iniziare comprendere le mie capacità. O meglio, adesso che ne parlo mi ricordo un Topolino fighissimo, ma probabilmente a riguardarlo oggi non sarebbe granché.
Usi molto simboli classici e tarocchi, per quale motivo?
Credo che quando si fa una cosa sia importante il livello di consapevolezza col quale la realizza. Se guardiamo alle radici dei simboli e il linguaggio immaginifico della società occidentale, necessariamente andiamo nell’aspetto esoterico-magico dei tarocchi o dei dipinti del Rinascimento o delle stampe del Medioevo. Ogni immagine deve fare i conti con quella che è la tradizione perché è così che si può esplorare il linguaggio in maniera profonda per provare in qualche modo a rinnovarlo e, perché no, a sperimentare.
Ultime cose fatte e prossimi progetti?
L’ultima cosa sono stati tre muri a Capo Verde in tre isole diverse. Una bellissima esperienza dove ho dipinto un tarocco, delle maschere di diversa provenienza ed epoca, e l’ultima, sul centro nazionale di artigianato e design di Mindelo, rappresentante dei volti ripresi dalle banconote capoverdiane. Il prossimo progetto è “Open walls” che si terrà in primavera a Baltimora: è un festival di writing, muralismo e street art dove vengono invitati un tot di artisti europei e americani, organizzato da Gaia Street Art, un ragazzo molto giovane e molto bravo.
Cosa vuol dire entrare in una galleria? E c’è spazio in Italia per giovani artisti?
Io come molti altri artisti credevo che entrare in una galleria fosse un punto d’arrivo, invece è solo da considerare un punto di partenza. Quello che ti da credibilità e attenzione è la possibilità di entrare in un museo e lavorarci. Oggi tutto è cambiato. Con le nuove tecnologie come Instagram e Facebook si può raggiungere un’ampia visibilità con pochi click. Per cui ci sono artisti giovani che stanno vendendo a cifre incredibili che però rischiano di bruciarsi molto velocemente. Ovviamente non in Italia dove il mercato dell’arte è fermo da tre anni anche se nessuno lo vuole dire. Io con le gallerie ho cominciato a lavorarci come Gionata Gesi, prima di “diventare” Ozmo.
E cosa facevi?
Avevo coronato il mio sogno quando, nel 2001 partito da Pisa per cercare una galleria a Milano, l’avevo trovata. Dipingevo a olio dei quadri che sentivano molto l’influenza del writing, tratti da fotografie sottoesposte realizzate con una delle prime digitali, lavorando con “Cannaviello”, una delle migliori gallerie milanesi. Un gallerista vecchio stampo che quando veniva in studio ti comprava quasi tutto. Il problema è che mi chiedeva molte opere e io impiegavo due mesi per farne una, e con sei quadri all’anno la produzione era considerata bassa e si lamentava che fossi lento. L’altro problema è che cominciavo ad essere identificato per il mio stile di pittura. Quando inizi ad essere i quadri che fai diventi schiavo di uno stile.
E quindi ricollegandoci alla domanda iniziale Ozmo è nato come rottura?
Come rottura spontanea ma anche necessaria. Mi si era presentata l’opportunità di una personale: per un anno avrei dovuto dipingere quadri di diverse dimensioni, un tot, grandi, un tot, piccoli, un tot medi, per l’esposizione. L’idea di entrare in quell’ingranaggio, in quell’ambiente di artisti che fanno finta di essere amici ma in realtà si odiano mi prendeva male.
E la mostra?
Non l’ho mai fatta. In quel periodo facevo le prime cose in strada con gli amici e mi divertivo molto di più facendo cose illegali. In più gli articoli che uscivano sui giornali parlavano di Ozmo e non Gionata Gesi, per cui ho cambiato strada, nonostante vendessi e senza parlarmi addosso ero considerato un artista promettente.
E non hai mai pensato di tornare a dipingere a olio?
Penso che il problema non sia il mezzo ma il fatto che se sei connotato da una precisa scelta tecnica. Le immagini hanno un potere e se non lo sai usare si ritorce contro di te. E’ il grosso problema del manierismo e del writing in generale o di chi è legato troppo al suo nome o a una trovata. Mi stava succedendo quello. Ozmo è stato il tentativo di non avere uno stile, l’idea dell’annullamento dell’ego e l’ho fatto prendendo immagini diverse già esistenti mischiandole e ricontestualizzandole per creare una composizione nuova.
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Mario Catania