Hi-Tech e web

Nonostante tutto internet non è il male

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«Internet nasce come una nuova sfida per l’umanità: attraverso il mescolarsi di influenze e idee diverse, creerà concetti e risposte nuove e migliori grazie alla mediazione meravigliosa della mente umana». Così definiva la sua creatura alla fine degli anni ’90 Tim Berners-Lee, uno degli inventori del World Wide Web. Era l’era della rete libera e anonima, dove i siti d’informazione più consultati erano quelli della rete Indymedia, con il suo slogan «don’t hate the media, became the media». I giornali mainstream stavano ancora su carta e a molti internet pareva destinato a rivoluzionare il mondo, portando nella vita reale nuovi principi basati su una cultura libera, orizzontale e indipendente. Non esistevano social network, siti di e-commerce né banner pubblicitari e anche le foto dei gattini scarseggiavano. Sembra passato un sacco di tempo, ed oggi forse non sono più in tanti ad aver mantenuto una visione così ottimistica dello sviluppo delle tecnologie digitali.

TRA INTERNET ADDICTION DISORDER E SINDROME DEI LIKE. Nel frattempo il fatto che sempre più persone trascorrano le giornate connesse, spesso senza un preciso scopo, ma essenzialmente osservando il flusso delle informazioni che gli scorre davanti agli occhi, ha portato psicologi ed esperti a teorizzare l’esistenza di una vera e propria dipendenza da internet. Ben lontano dal contribuire a creare “concetti migliori”, come teorizzato da Berners-Lee, l’utente medio del web pare più spesso perdere il proprio tempo alienandosi dalla realtà circostante. Una condizione che, come sempre accade, è stata definita come una sindrome meritoria di un nome specifico: Internet Addiction Disorder (IAD).

Questa sindrome, secondo alcuni esperti, riguarderebbe ormai una fetta crescente delle popolazioni occidentali. Tutto sarebbe cominciato con i social network: la maggior parte dei disturbi ha infatti come sintomo il troppo tempo trascorso su Facebook, moltiplicatosi fino a oltrepassare il livello di guardia con la diffusione capillare degli smartphone, attraverso i quali ci si può connettere da ogni luogo e in ogni momento della giornata. Secondo una ricerca del dipartimento di Psichiatria dell’Università Cattolica, in Italia ogni dieci iscritti a Facebook due sono dipendenti ed altri due manifestano un uso problematico e compulsivo, mostrandosi sulla soglia della dipendenza. Un’anticamera che si manifesta attraverso quella che è stata definita la “sindrome dei like”, cioè la tendenza a soffrire di un sentimento di isolamento e mancata accettazione quando i propri status sui social non ricevono un confortante numero di “mi piace” da parte degli amici digitali.

LA DIPENDENZA DA INTERNET ESISTE DAVVERO? La dipendenza dal web viene trattata sempre più spesso come una vera e propria emergenza. Psicoterapeuti di ogni risma si dedicano al fenomeno, cercando di classificarlo e di definire percorsi di cura per chi vuole disintossicarsi. Nel 2009, presso il Policlinico Gemelli di Roma, ha aperto il primo centro ufficiale per la cura dell’Internet Addiction Disorder, ed ora di questi centri se ne contano a decine lungo tutto lo stivale. Ci sono terapie per tutti i gusti: da quelle che prescrivono l’eliminazione della connessione da casa, a quelle che cercano di “disintossicare” il paziente spingendolo a scoprire nuovi hobby da fare all’aperto, fino ai gruppi di mutuo aiuto, in stile cyber dipendenti anonimi. Cose del tipo: «Ciao sono Andrea, ho 33 anni, e da 23 giorni non vado più su Facebook». Terapie verso le quali è lecito nutrire dei dubbi, anche considerando il fatto che si tratta quasi sempre di cure a pagamento, effettuate da centri privati e affidati a professori dal controverso curriculum.

D’altra parte è sempre all’interno della comunità scientifica che si trovano anche voci molto critiche su quella che a molti pare come una sopravvalutazione del fenomeno. All’ambulatorio per le dipendenze comportamentali del Policlinico Gemelli negli ultimi anni hanno ricevuto un migliaio di persone alle prese con disturbi collegati a internet, ma secondo il responsabile del centro, Federico Tonioni, «è proprio visitando queste persone che ci si rende conto di come il concetto stesso di dipendenza da internet rappresenti spesso un artefatto o un sintomo di un disagio di altro tipo. Per esempio – continua – la maggior parte degli adulti che vengono da noi in realtà sono dipendenti dal gioco d’azzardo online o dai siti pornografici, quindi sarebbe sbagliato definirli dipendenti da internet, visto che per loro la rete è solo il mezzo attraverso il quale soddisfano altri tipi di dipendenze».

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INTERNET NON CI TRASFORMERÀ IN ZOMBIE. Di certo esistono persone che sono assorbite dai social network da mattina a sera, ma una dipendenza reale è ben altra cosa. Da una dipendenza non si esce da soli, dall’abuso dei social invece sì. In quest’ottica a essere pericoloso non è tanto il numero di ore passate connessi. Che, tra parentesi, secondo il limite di tre ore che venne stabilito alcuni anni fa, renderebbe quasi tutti coloro che posseggono uno smartphone classificabili come internet dipendenti. A preoccupare deve essere quello che viene definito il rischio di “ritiro sociale”. Cioè la tendenza di alcuni utenti, per fortuna pochi, a rinunciare alle proprie attività nel mondo reale, al punto di temere ciò che accade per strada preferendo rimanere ancorati alla rassicurante vita che si sono creati sul web.

Insomma, forse gli analisti che parlano di una generazione che si sta trasformando in zombie a causa dei social e degli smartphone stanno un po’ esagerando. E d’altra parte, per fortuna, tante persone preferiscono fare attività all’aperto e in compagnia. Preferiscono leggere qualcosa, bere una birra con gli amici o andare a fare un giro al mare. E se dal mare postano una fotografia o controllano le mail non è che sia per forza sintomo di qualcosa che non va. Allo stesso modo sempre più persone utilizzano internet e le applicazioni per il cellulare per scopi intelligenti e per risparmiare tempo da poter dedicare ad altre attività, per pianificare dei viaggi, per conoscere gli eventi e i concerti in programma nella propria città o per rimanere in contatto con gli amici lontani. In fondo internet non è altro che un mezzo. Forse l’entusiasmo sulle sue possibilità rivoluzionarie che nutrivano i pionieri della rete negli anni ’90 era eccessivo, ma di sicuro sono eccessive anche certe visioni totalmente negative.

NON PERDERE IL GUSTO DELL’INATTESO. Quella che segue è una citazione di un’analisi dello scrittore Roberto Crotoneo: «Sul web più che cercare stimoli inattesi, spesso si cercano esperienze da ripetere, come fosse un continuo reiterare un desiderio che già conosci. L’inatteso è filtrato, a volte censurato. Se qualcuno dice cose che non capisco e non condivido potrei cancellarlo o toglierlo dai miei follower. E allora l’esperienza non è mai l’avvento dello sconosciuto nel conosciuto, non è mai la mescolanza di saperi, ma il ripetersi di cose che rafforzano identità fragili confermandole. Tutti quelli che la pensano come me commentano le mie opinioni, e mi aiutano a non perdermi. Quindi si tratta di un’esperienza filtrata». Forse se c’è un rischio collegato allo stare troppo online è proprio questo: perdersi tante possibili esperienze che aiutano a crescere nella vita vera, perdendo pian piano l’abitudine a confrontarsi con persone che la pensano diversamente e quindi sapere accettare con meno elasticità le diversità e gli imprevisti che rendono il mondo un posto speciale.

E, per chiuderla con ironia, l’importante è anche ricordarsi che il mondo online è si collegato a quello reale, ma procede attraverso codici e comportamenti differenti. Sennò il rischio è quello di fare come quel tizio citato in una specie di barzelletta che gira da un po’ di tempo su internet. È scritta in inglese, ma la traduzione suona più o meno così: «Sto cercando di farmi degli amici al di fuori di Facebook applicando gli stessi principi. Ogni giorno scendo in strada e racconto ai passanti cosa ho mangiato, come mi sento in quel momento, cos’ho fatto la sera prima, cosa farò dopo e con chi. Gli faccio vedere le foto della mia famiglia, del mio cane, di me mentre annaffio il giardino, sistemo la cantina, poso di fronte ai monumenti, mangio e faccio le cose che tutti facciamo ogni giorno. Per strada ascolto anche le conversazioni degli altri, gli dico se mi piace quel che dicono. Proprio come su Facebook: e funziona! Ho già quattro persone che mi seguono: due poliziotti, un investigatore privato e uno psichiatra».



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