No alle pellicce di coniglio d’angora
Dopo la campagna lanciata nel 2013 dalla PETA, con la quale l’associazione denunciava il brutale trattamento riservato ai conigli d’angora negli allevamenti cinesi, molti brand hanno deciso di eliminare dalle proprie collezioni la loro pelliccia: Lacoste, Zara, Tommy Hilfiger, H&M, Bershka, Calvin Klein, French Collection e, infine, Benetton Group. L’investigazione, girata sotto copertura, mostra operai che strappano la pelliccia a conigli vivi legati su assi di legno. La procedura avviene ogni tre mesi circa, per un periodo di tempo che va dai due ai cinque anni; quando la pelliccia non cresce più, gli animali diventano inutili e vengono venduti come carne di seconda qualità. I conigli subiscono traumi fisici e psicologi per tutto il periodo di permanenza negli allevamenti. Ferite, paura, stress psicologico, isolamento, mancanza di stimoli sono i regali riservati a questi animali socialmente complessi, gentili e intelligenti.
La campagna, grazie al successo mediatico, ha causato un drastico calo della domanda di pelliccia d’angora: le esportazioni sono diminuite del 74%. La scelta di non creare più capi con la pelliccia di questi animali è apprezzabile e condivisibile ma alcune delle aziende sopra citate hanno ancora molti scheletri nell’armadio, tra cui, per esempio, il risarcimento delle vittime di Rana Plaza di Benetton, il colosso dell’abbigliamento. L’azienda vorrebbe versare nel Fondo appena 1,1 milioni di dollari a fronte della richiesta di almeno 5 milioni di dollari, lasciando le famiglie delle vittime senza un adeguato rimborso. «Il livello di responsabilità verso le vittime è molto più grande di quello di altri marchi. Benetton ha mentito pubblicamente riguardo le relazioni con il Rana Plaza nelle settimane successive al disastro, negando inizialmente qualsiasi legame con l’edificio e trascinando per due anni questa storia del risarcimento. Per sua stessa ammissione, Benetton ha prodotto, più di un quarto di milione di pezzi, lavorando con la fabbrica per oltre otto mesi, senza mai compiere nessun passo per accertare le condizioni di sicurezza dei lavoratori, nonostante abbia condotto diverse visite di controllo della qualità della produzione», si legge in un comunicato della campagna Abiti Puliti.
La moda, soprattutto quella low cost, è spesso sinonimo di condizioni disumane, salari minimi, assenza di norme igienico-sanitarie e orari massacranti. Altra considerazione da fare, oltre ai diritti dei lavoratori, è l’utilizzo di pelli, cuoio e pellicce di altri animali, nelle collezioni di alcuni marchi, che hanno detto “no” all’angora. Il trattamento riservato alle altre specie, come i visoni, per esempio, è lo stesso: violento e crudele. Poiché queste aziende, spesso, vantano il rispetto della natura, degli animali e delle persone, ci auguriamo che diventino presto più coerenti, abbracciando una politica totalmente cruelty-free, anche se ciò dovesse comportare un aumento dei prezzi dei capi di abbigliamento.