Niente canapa light: il settore vittima dell’Inquisizione
Davanti all’ennesimo fallito tentativo di disciplinare normativamente la canapa light, è esplosa (e giustamente) la delusione dei proponenti gli emendamenti platealmente bocciati.
Non innovare la legge 242 del 2016, significa, da un lato, lasciare inalterata una delle leggi più sgangherate concepite negli ultimi anni e, dall’altro, perdere una grande occasione di superare una situazione di palese incertezza normativa e giuridica e favorire lo sviluppo economico. Abbiamo necessità di una legge chiara, che precisi e meglio individui il ruolo del coltivatore, anche come imprenditore commerciale del settore canapa e che, allo stesso tempo, finalmente definisca in modo preciso il ruolo del commerciante dei prodotti derivati dalla coltivazione.
Abbiamo necessità di un intervento che superi quell’attuale ipocrisia interpretativa, che è culminata nella sentenza delle SSUU n. 30475/19, la quale omettendo di definire minimamente il concetto di efficacia drogante (lasciando assurdamente ai giudici di merito il compito di riempire di significato tale locuzione) ha ingenerato uno stato di ingiustizia e confusione. Non vi è la volontà di sanare un equivoco di fondo che deriva da più gravi omissioni.
La prima concerne l’assenza di una previsione espressa, nell’ambito dell’elenco di cui all’art. 2 delle infiorescenze. La seconda riguarda, poi, il consequenziale silenzio in ordine al fenomeno della commercializzazione delle infiorescenze stesse.
Ove il distratto legislatore avesse disciplinato anche il segmento del commercio delle infiorescenze (come avrebbe dovuto naturalmente essere), si sarebbe ovviamente dovuto armonizzare i limiti percentuali di THC oltre i quali ravvisare l’efficacia drogante del prodotto. Si sarebbe dovuto, quindi, ovviare normativamente alla lacuna della mancata fissazione legislativa del discrimine fra sostanza lecita e sostanza illecita.
Allo stato attuale non vi sono certezze solo che si pensi alla circostanza che la L. 242/2016 evoca due limiti di THC (0,2% e 0,6%) che si riferiscono solamente alla coltivazione, che non sono applicabili alla commercializzazione e che risultano non armonizzati e armonizzabili con quel dato scientifico (lo 0,5%) che attiene al discrimine fra sostanza psicoattiva e non.
Un simile semplicissimo e logico intervento avrebbe permesso di superare quegli indirizzi proibizionistici che permeano quotidianamente le pronunzie della Corte di Cassazione (e di troppi giudici di merito) e che si risolvono in affermazioni errate, illogiche, che appaiono palesemente disancorate dalla fenomenologia e dalla letteratura scientifica.
In questo contesto di ignoranza, ignavia e disinteresse troppi seri imprenditori in questi quattro anni si sono trovati in mezzo al guado. Troppi seri imprenditori dal 2016, una volta esploso il fenomeno della canapa light, si sono trovati (e tuttora si trovano) a vivere l’umiliazione di essere indagati, in virtù della sola colpa di avere lavorato seriamente e di non essere stati creduti nella propria protesta di correttezza da forze dell’ordine e dalla magistratura.
Non è concepibile che intervengano sequestri di merci ritenute illecite e stupefacenti (puntualmente confermati da Tribunali e dalla Cassazione) cui puntualmente, invece, seguono archiviazioni ed assoluzioni. Stiamo, così, vivendo una situazione assai frustrante, dove anche gli indagati più preparati e scafati preferiscono cercare strade politiche e difensori politici, piuttosto che continuare battaglie giudiziarie e tecniche.
Siamo forse alla resa del diritto di difesa dinanzi allo strapotere dell’Inquisizione.