Nel rap stanno davvero tutti bene?
È davvero l’epoca d’oro del rap italiano? Sta andando tutto per il verso giusto? A parte gli sporadici dissing, per altro parte del gioco da sempre, parrebbe di vivere un momento tutto rose e fiori: nessuna voce fuori dal coro, nessun segno di disagio evidente. È improbabile che questa situazione di presunta stasi stia bene a tutti: non si era mai avvertito un cambio generazionale tanto evidente, in grado di stravolgere le dinamiche e le gerarchie del rap in Italia, eppure rivalse e rivincite stanno scomparendo, soppiantate dall’italianissima pratica del bandwagoning, letteralmente “salire sul carro del vincitore, del più forte del momento”.
E i più forti, almeno numericamente, in questo preciso momento storico sono tutti giovani. Fanno trap e hanno un linguaggio molto più vicino alla massa che oggi muove più numeri, ovvero l’uditorio adolescente: insomma, rappresentano al meglio l’universo dei ragazzi e fanno pesare la differenza generazionale. Hanno captato e influenzato al meglio il loro linguaggio, hanno creato veri e propri standard comunicativi e, soprattutto, sono dei “nativi digitali” che danno del tu a internet: i video, i visual, i meme, le pagine Facebook a loro dedicate, che siano di culto o di sano sfottò, spopolano a dismisura, facendone riecheggiare ancora di più l’eco.
La risposta musicale dei “vecchi” si è fatta sentire, ma nel complesso in pochi hanno preso le distanze esplicitamente dal nuovo fenomeno. Continua ad essere popolosa la schiera di quelli che perseguono fieramente nei solchi tracciati da anni, senza risentirne; nomi storici tipo Murubutu, Mistaman, Inoki, Kento, Esa, Dj Argento e Il Turco, fuori negli scorsi mesi con progetti dal retrogusto classico. Un certo tipo di rap, che ancora pone al centro dell’attenzione il messaggio, difficilmente verrà scalfito. Anche oltreoceano, nei più facili esempi di De La Soul e A Tribe Called Quest, il cui acclamato disco di ritorno “We Got It 4 from here… Thank you for your Service” è addirittura arrivato fino alla prima posizione nella classifica di vendita, questa tendenza sembra essere confermata.
In altri casi, invece, la vicinanza ai gruppi più giovani ha fatto cambiare radicalmente idea sulla faccenda: il caso più esplicito è rappresentato da The Night Skinny, producer di origini molisane di base a Milano, un tempo paladino dell’underground e dei ritmi serrati. Con la fama di abile talent scout nel passato ha saputo congiungere nomi di grandissimo talento, talvolta poco conosciuti al grande pubblico, confezionando progetti di spessore senza dover seguire la tendenza del momento, anzi. In uno status di qualche mese fa, invece, ha augurato un «posto da bidello a tutti i rapper che continuano a lamentarsi del nuovo movimento capitanato dai giovani». Molti di questi, continuava, «hanno provato ad usare vocoder ed autotune – gli effetti vocali più utilizzati nella trap, ad esempio, ndr – ma facevate cacare!». Per inciso, Night Skinny è ora producer di Rkomi, tra i nomi più interessante del nuovo panorama rap.
Con le dovute eccezioni, i giovani rapper hanno una struttura lirica e metrica piuttosto semplice che spesso trascende il dogma delle rime e dell’andare a tempo: in linea generale, un modo di intendere il rap in maniera totalmente differente rispetto ai predecessori. L’Hip Hop è diventato un fine, non più un mezzo, tanto per smentire la storica citazione di Esa El Presidente in “Lotta Armata” di Gente Guasta. Perché, se è pacifico che i più giovani si rispecchino maggiormente nella nuova generazione-rap, molto più vicina ai loro stilemi, alla moda e al pensiero di quanto non riesca la vecchia, non è accettabile che passi per buono un messaggio che spinga esclusivamente all’autoaffermazione e al successo personali e che i vecchi soprassiedano, vuoi per indifferenza, per convenienza o per disinteresse.
Questioni sociali, più comunitariste, non sono più centrali nella nuova ondata Hip Hop, mentre è molto più semplice ascoltare sui quattro quarti considerazioni su quanti zeri si contano sul conto bancario, su quante donne sono cadute ai propri piedi e su quale brand di abbigliamento sia più stiloso dell’altro. Certo, nulla di nuovo sotto il luminoso sole del rap, dove la rivalsa personale, l’autoesaltazione e l’“avercela fatta” dopo vite difficili l’hanno fatta spesso da padroni, ma forse mai come adesso questa sembra essere l’indole predominante. E così, vista l’età media dei seguaci e di quelli che iniziano oggi a fare rap, potrebbe essere per gli anni a venire.
Dare per assodato, insomma, qualcosa che non è. Non sembra proprio il momento storico ideale per dare per buono tutto ciò senza muovere un dito, per accettare passivamente questo evidente cambio di rotta. Un turnover generazionale come ne sono esistiti già, un ricambio che, più che un arricchimento, sta indebolendo e annacquando il genere. Oggi, stiamo tutti bene, pare. Domani, senza un cambio di rotta, chissà…