Intervista a Nativa: il franchising italiano della marijuana
L’obiettivo è chiaro: conquistare il multimilionario mercato italiano della cannabis ricreativa. I soggetti meno, nel senso che gli imprenditori che stanno dietro a Nativa, azienda che si propone come primo franchising della cannabis italiana, preferiscono mantenere l’anonimato per evitare problemi, nonostante tutto sia fatto alla luce del sole.
Anche se ad oggi coltivare cannabis nel nostro Paese è illegale, l’azienda scommette che il 2016 sarà l’anno della legalizzazione, e lo fa annunciando un franchising, con tanto di stime dei costi, al quale può aderire chiunque fosse interessato al progetto dell’azienda di commerciare la marijuana quando sarà legale. Ora, per sondare il terreno, è aperta la fase di pre-selezione.
Da ciò che raccontano i comunicati dell’azienda il business sarà organizzato in negozi monomarca da aprire nelle principali città italiane con strain di proprietà. Cannabis prodotta sia indoor che outdoor, ma sempre in terra e non in idroponica, e per le coltivazioni in esterni sono stati identificati terreni come il Chianti, il Salento e il Cilento. Poi, dopo aver specificato che l’azienda intende produrre solo cannabis da fumare, e non derivati di alcun tipo, si passa alle cifre: 22.500 euro alla firma del contratto di franchising, con un investimento previsto di “50.000 euro, comprensivo di progetto, arredamento, sistema di cassa e bilancia, training”.
L’idea è chiaramente quella di anticipare altri possibili concorrenti sul mercato, muovendosi in anticipo e puntando sulla grande cultura agroalimentare italiana e sulla nostra tradizione di canapicoltori. Una cannabis made in Italy di qualità, dunque, che da pianta proibita possa diventare l’ennesima eccellenza italiana prodotta dai nostri contadini grazie alla terra e al sole che rendono unico il nostro Paese. Secondo l’azienda,”l’esperienza di altri paesi ha insegnato inoltre come il mercato sarà sostanzialmente governato non da chi proporrà il prodotto migliore (opinabile per definizione) ma da chi sarà in grado, attraverso strategie di comunicazione e marketing ben pianificate, di entrare nella mente del consumatore tanto da far identificare il prodotto con la marca”. Ecco probabilmente spiegato il perché siano partiti prima degli altri.
Mentre la notizia girava in internet c’è già chi gridava allo scandalo, additando un business non ancora nato come il futuro monopolio della cannabis italiana. Noi, mantenendo la promessa dell’anonimato, siamo riusciti a contattare uno degli imprenditori titolari del marchio Nativa.
Di seguito la nostra intervista esclusiva.
Come è nata quest’idea di business? E cosa venderete?
Io faccio parte di un gruppo di imprenditori che hanno deciso di investire su un fronte che secondo noi, in base ad una serie di analisi che abbiamo fatto, rimane scoperto. Io faccio impresa da tanti anni e sono partito negli anni ’90 nell’ambito della tecnologia e proseguo ancora oggi nel settore delle telecomunicazioni. Dell’argomento se ne parla molto, anche in politica e spesso a sproposito non conoscendo nemmeno le dinamiche del mercato. C’è un mercato di consumatori che chiaramente si rivolgono ad un mercato illegale, ma mancano i soggetti che, quando il mercato sarà prima o poi regolamentato, siano in grado di selezionare un prodotto, costruire un’esperienza intorno ad esso e che poi lo vendano in un mercato che comunque esiste.
Come mai siete così convinti che il 2016 sia l’anno della legalizzazione?
Ovviamente noi siamo ragionevolmente convinti che quest’anno progressivamente il mercato sarà liberalizzato. Non posso entrare nel dettaglio ma da parte di diversi soggetti che partecipano all’iniziativa c’è sicuramente l’interesse di sollecitare la politica a intraprendere delle iniziative in questo senso. Non abbiamo la certezza assoluta ma siamo abbastanza certi che il 2016 sarà ricordato in futuro come un anno fondamentale per questo traguardo.
Appena in internet è girata la notizia della nascita di Nativa, la preoccupazione più grande è che voi vogliate creare un monopolio prima ancora che la cannabis sia legale…
Questo è il problema di qualsiasi azienda che si trova a che fare con un mercato di nicchia spesso costellato da persone che si sentono carbonari. Gli estremisti in questo tipo di mondo esistono, ma se le stesse persone che hanno criticato Nativa avessero letto che vogliamo produrla in modo naturale al 100%, totalmente in terra anche andando incontro a problemi di produzione, cercando di associare un’operazione come è stata quella di Eataly che ha elevato l’agroalimentare italiano ad eccellenza anche all’estero dando spessore al contadino con le mani sporche di terra, io credo che avrebbero dovuto quantomeno darci fiducia. Lo dico anche dopo aver ricevuto centinaia di mail di appassionati che si complimentano per la strategia di aver anticipato tutti, ci dicono che è esattamente quello che avrebbero voluto fare loro e non ti nascondo che ci sono molti proprietari terrieri che ci hanno scritto che le terre sono pronte. Era anche una logica d’impresa: noi non vogliamo creare coffe shop, noi vogliamo che ci sia un prodotto italiano, che è diverso.
Abbiamo visto le genetiche sul sito. Si tratta di genetiche che avete selezionato voi o le avete acquistate?
L’offerta che si trova sul sito, e che non è completa perché rilasceremo una genetica ogni mese, è un’offerta di mercato. Abbiamo deciso di offrire eperienze nel senso di momenti in cui consumare la cannabis. Allo stadio o mentre guardo la partita o gioco ai videogiochi o per uscire; una varietà leggera per lavorare, ed un’altra da usare solo dopo il tramonto perché voglio dormire, una che mi faccia venire fame e una che non solletichi l’appetito. Il concetto è stato poi girato a degli esperti che hanno ragionato sugli incroci: le genetiche che noi faremo vogliono essere di fatto il catalogo di offerte di Nativa.
Avete già ricevuto richieste di pre-affiliazione?
Le richieste sono all’ordine di centinaia, è evidente che andranno verificate perché è possibile che qualcuno, non avendo presente il tipo di impegno a cui si andrà incontro in futuro con un franchising, abbia scritto solo per avere informazioni. Essendo un mercato di esperti abbiamo visto un numero elevato di richieste anche in termini qualitativi: non ci sono sprovveduti che hanno scritto e abbiamo avuto conferma di un livello di competenza che è lontanissimo rispetto a quello che appare all’esterno dove di questi temi si parla solo in maniera negativa. In realtà esistono anche aspetti legati alla capacità da parte di noi italiani di porci su un mercato comunque competitivo con la capacità di produrre eccellenze in termini qualitativi. La cosa che ci ha stupito molto è che la logica di Nativa e cioè il sole dell’Italia la terra e le capacità e le competenze italiane sulla canapa, è stata ripresa da moltissimi organi internazionali che parlano di cannabis; nonostante il sito sia solo in italiano abbiamo numerose visite da tutto il mondo e di questo siamo felici.
Perché avete scelto il nome Nativa?
Per unire il concetto di Cannabis Sativa, ad una desinenza latina che ricorda l’italianità e poi perché la cannabis prodotta sarà italiana e volevamo un nome che ricordasse appunto il nostro Paese, ma non per vendere i semi all’estero, bensì per dare senso di appartenenza ai consumatori.
A cosa punta l’azienda?
Credo che alla fine stiamo facendo qualcosa che possa tornare utile a tutti, nel senso che stiamo remando tutti nella stessa direzione. Nel momento in cui tutti possono avere qualcosa indietro da questa operazione, politica compresa, noi non abbiamo nessun ritorno e ce l’avremo solo quando ci saranno le condizioni per sfruttare commercialmente l’iniziativa. Chiaramente l’imprenditore ha comunque una visione di medio e lungo termine e, anche se noi abbiamo scommesso sul 2016, fosse anche il 2017 o il 2018, non sarebbe un problema. Proveremo anche a rappresentare quel tessuto industriale che preme per venire allo scoperto con la concretezza logica di un’impresa. Vorrei che i lettori ci diano una chance, tutto qua. Noi facciamo una proposta: che ce la critichino, la condivano o la combattano, non c’è nessun problema, l’opinione di mercato che cerchiamo di fare è un’opinione libera, lontana da un possibile monopolio.
Perché avete scelto di mantenere l’anonimato? E cosa rispondete a chi vi ha definito come degli squali?
Molti di noi che siamo dietro a questa iniziativa trarrebbero vantaggio dal rendersi visibili e associati a questo brand, non lo fanno e quello sarebbe sicuramente un modo per essere degli squali. Nel nostro caso è esattamente il contrario, se fossimo squali approfitteremmo di questa occasione per avere visibilità e notorietà.