HipHop skillz

myHipHop Draft 2013: The Essence

Continua la nostra nuova rubrica a cadenza settimanale, myHipHop Draft 2013! Chi segue il basket conosce il sistema del Draft NBAgiovani rampanti cestisti che si avvicinano allo spettacolare mondo del basket statunitense, quasi sempre arrivati dai college nei quali si formano non solo umanamente, ma anche atleticamente. In qualche modo, dunque, questi college rappresentano la stessa gavetta che i giovani rapper e producer fanno tra palchi e lavori, ufficiali e non. Da oggi in poi, una volta a settimana, proporremo le nostre scelte del Draft, ovvero quelli che reputiamo essere le migliori prospettive qualitative del rap nostrano. Insomma chi, secondo noi, ha tutte le carte in regola per poter ben figurare nel mondo dell’NBA/rap italiano.

THE ESSENCE, 20 ANNI, PRODUCER, NAPOLI.

the essence

The Essence è una ragazza di 20 anni e proviene dall’hinterland partenopeo. L’hip hop per lei è stato un’illuminazione, il beatmaking il mezzo per esprimere il proprio talento. Alle spalle ha un EP strumentale, “Pyramids“, una riuscitissima collaborazione con Ghemon per il brano “Smisurata preghiera” e diverse altre compartecipazioni. Una carriera giovane ed un futuro ancora da plasmare, certo:  il presente ci mostra una ragazza con una notevole ispirazione compositiva, con quel tocco peculiare che fa la differenza, a quest’età. La bravura, ma anche la personalità e le idee chiare per combattere i cliché dell’hip hop italiano, un mondo spesso forzatamente maschilista e che pone ancora in secondo piano il beatmaking, fanno di lei un nome da tenere davvero d’occhio. A voi, The Essence:

Partiamo dal principio: come si è avvicina una ragazza di provincia all’hip hop, quando questo ancora non invade i canali mainstream? Ed in particolare alla sua forma espressiva forse più complessa, il beatmaking?

Il mio avvicinamento all’hip hop è arrivato grazie a degli amici che frequentavo, che ascoltavano rap. Tra l’altro ricordo che prima di “scoprire” questo genere, ero molto scettica; vuoi perché provenivo da un background totalmente diverso (suonavo la chitarra in un gruppo rock), vuoi perché non conoscevo ancora nulla di questa disciplina. Fatto sta che ho sempre cercato di conoscere e poi giudicare. Dunque, ho cominciato ad ascoltare artisti che erano “in voga” al tempo (parlo di quando avevo 13-14 anni): Fabri Fibra, Mondo Marcio, Bassi Maestro, Neffa, Kaos ecc. Sono cresciuta così. La passione per il beatmaking è arrivata dopo. Mi sono avvicinata ad esso grazie ad un amico che produceva e, visto che mi è sempre piaciuto “comporre”, ho cercato di mettermi a lavoro. E niente, è andata come sappiamo tutti.

Agli inizi, ciò che sostanzialmente distingue un potenziale ottimo artista da un onesto mestierante è il tocco personale, il segno distinguibile della propria traccia. In te, si scorge un certo senso peculiare, orientato a sfumature abstract e wonky, diciamo. Come è nato? 

È nato ascoltando musica diversa da quella che si produce oggi in Italia. Ho seguito per un periodo produzioni di artisti che erano sconosciuti ai più, che mi hanno fatto letteralmente esclamare “WOW”, e in seguito domandarmi “Che genere è questo?” . Cosa che, ascoltando roba italiana, accade davvero raramente.  Il fatto è che quando si ascolta qualcosa di nuovo si assimilano tanti nuovi punti di vista, ma bisogna anche essere bravi ad interiorizzare e rivalutare. Purtroppo nella produzione rap ci sono degli schemi abbastanza precisi, dai quali è difficile uscire, esempio: batteria, sample e basso. Alla lunga questo “trittico” stanca, anche perché, se ho la possibilità di fare qualcosa fuori dagli schemi, perché no? E’ proprio questo il bello della musica: mischiare i generi, dare un tocco personale, utilizzare una tecnica che finora è stata utilizzata solo in altri generi di elettronica, come il sidechain.

Ho l’impressione che i producer oggi si trovino maggiormente a proprio agio nel fare pezzi strumentali, piuttosto che beat per un rapper. Un modo, diciamo, per certificare ulteriormente la propria presenza e importanza nell’hip hop odierno. Ti senti più “libera”, meno vincolata producendo una strumentale?

Nei pezzi strumentali c’è molta più libertà. Posso farli suonare come voglio, e non devo seguire alcuna direttiva, solo la mia testa. Ora ho davvero poco tempo per fare la musica che davvero vorrei fare:  avrei bisogno di  tempo per una vera e propria ricerca sonora e per varie cose, in questo momento, mi manca. Quindi,  preferisco concentrarmi sulle strumentali per i rapper per poi dedicarmi totalmente a quello che ho detto poco fa. Ovviamente quando lavoro per un rapper  c’è meno libertà perché devo sia tutelare la mia musica, sia stare ai cambiamenti che mi si chiedono, visto che nel pezzo ci sono due teste e non più solo la mia. Inoltre, spesso, mi si chiedono determinati tipi di produzione, e quindi devo “sforzarmi” a indirizzare la produzione verso un determinato “stile”. A volte è stancante, però molte volte mi ha dato la possibilità di aprirmi a nuovi tipi di produzione e quindi ampliare ancora di più la conoscenza di vari sottogeneri: ad esempio ultimamente mi vengono molto richiesti beat trap. E’ una cosa che non ho mai fatto, e mi viene abbastanza difficile, ma è un allenamento a fare roba nuova, e soprattutto ascoltare musica che prima ignoravo.

La tua musica mantiene le radici nell’hip hop classico, ma non disdegna un approccio più “nuovo”, meno paradigmatico, maggiormente ibridato. Se negli States è ormai una certezza, un suono non canonico sta arrivando anche in Italia. Pare dunque che la lezione di J Dilla sia ancora in vita: l’hip hop può diventare un suono mainstream anche da noi?

the essencePurtroppo sono ancora abbastanza scettica sulla qualità del nostro hip hop mainstream. Il problema principale è che le case discografiche indirizzano l’artista ad un determinato tipo di sonorità, snaturando quello che è il suono base dell’hip hop. Oggi, le persone che producono artisticamente un cd rap mainstream, sono quelle che lo producono anche ad Emma, i Modà e altri gruppi pop. Forse uno dei problemi è che non c’è una vera e propria cultura hip hop in Italia, che permetta a questo genere di diventare mainstream senza snaturarsi. In ogni caso è un discorso davvero vastissimo, possiamo partire dal fatto che l’autoproduzione non viene supportata a dovere e quindi l’artista per vivere deve per forza scendere a determinati compromessi con le etichette. Ho paura che in Italia, a livello mainstream, non arriveremo mai ad avere un disco rap simile a quelli americani, basta fare il nome di Kendrick Lamar. Quanto venderebbe un cd così in Italia? Eppure, non ha sonorità eccessivamente commerciali, ed in America ha spopolato. Sarò cinica e pessimista, ma credo dovremmo continuare a subirci “Che Confusione” di Moreno, con  2 minuti di ritornello e 1 minuto di strofa totale in radio, piuttosto che un pezzo qualsiasi di Ghemon o Mecna o qualsiasi altro artista che fa musica seria.

“Pyramids”, che potete ascoltare qui sopra, il tuo primo ep strumentale, ha riscosso buon successo. Però le etichette che si sono interessate a te, come a molti altri tuoi colleghi producers, sono estere. C’è ancora un po’ di scetticismo tutto italiano nei confronti del beatmaking, ancora ritenuto attore non protagonista?

Certo, è così. Spesso il ruolo del beat maker è ritenuto così marginale che neanche si viene menzionati nei video con il fatidico “Prod Tizio/Caio”. C’è da dire che sono stata io a cercare un’etichetta che volesse aiutarmi nella distribuzione del mio Ep “Pyramids”, e dopo aver contattato una ventina di web label, sia italiane che estere, indovinate le risposte da quali sono arrivate? Quelle estere, ovviamente. E così, grazie alla piccola etichetta americana, la “DaP Station”,  che mi ha dato la possibilità di distribuire il disco in digitale sulla propria piattaforma Bandcamp, sono stata contattata dalla “Amajin Records” (una web label tedesca, piccola ma efficiente) che mi ha dato la possibilità di stampare il disco in copie limitate, di cui sono ancora acquistabili le ultime copie rimaste qui.

Domanda di rito per questa rubrica: cosa pensi del momento del rap italiano? Molti tuoi coetanei si stanno avvicinando all’hip hop: che consigli daresti loro per non prenderla come moda passeggera, ma come un modo per conoscere e apprezzare le radici di questa cultura?

Del momento dell’hip hop italiano penso che dovremmo approfittare un po’ tutti, ma non nel senso puramente economico del termine. Approfittare, inteso come “distribuire cultura”. Proporre artisti alternativi con i quali cercare di contrastare l’ignoranza dei vari pezzi di artisti usciti dai talent e simili. Se l’hip hop va, è un bene per tutti. Si deve, per così dire, effettuare un processo di  acculturazione. E’ un pensiero utopistico, me ne rendo conto, ma nel mio piccolo ci provo, anche semplicemente consigliando determinati artisti da ascoltare ad un amico che si avvicina all’hip hop. Infatti, in risposta alla seconda domanda, consiglio proprio di cercare almeno quali sono stati “i pionieri” di questa cultura, qui in Italia. Ascoltare i vecchi dischi, cercare di andare a qualche jam per vedere come si svolge e come si vive in pieno quello che è l’hip hop. Se i ragazzini di oggi si fermano alla foto all’instore del proprio artista preferito, e riducono a quel cd e a quella foto la loro conoscenza del rap, purtroppo abbiamo fallito un po’ tutti. Se su 10 ragazzi, anche uno si chiede “sì, ma com’è nato il fenomeno hip hop in Italia? Chi sono stati i primi? ” e si mette a cercare scavando sui forum o su internet, abbiamo vinto un po’ tutti.

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A cura di Nicola Pirozzi

Le precedenti puntate di myHipHop Draft:

Oyoshe
Killa Cali
Baco Krisi



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