Morire d’inquinamento in Irpinia
Il compromesso fra lavoro e salute ci accompagna fin da quando venne inventata la macchina a vapore, erano gli anni della prima rivoluzione industriale e nelle grandi città inglesi l’occupazione cresceva a dismisura (sia pur sottopagata e in larga parte minorile), mentre il fumo del carbone anneriva edifici e polmoni, riportando l’aspettativa di vita della popolazione indietro di secoli.
Da allora purtroppo non è cambiato molto, l’attenzione per la salute naturalmente ha guadagnato ben altre posizioni ed è nata una sia pur timida “coscienza ambientale”, ma il compromesso fra la salute dei lavoratori e della popolazione e i “posti di lavoro” continua a riproporsi comunque in una moltitudine di situazioni che spaziano dall’industria siderurgica a quella chimica, attraverso una molteplicità di attività estremamente pericolose per la salute e l’ambiente.
In Italia molto si è parlato della tristemente nota “terra dei fuochi“, l’area a cavallo fra la provincia di Napoli e quella di Caserta che comprende 2 milioni e mezzo di abitanti, dove risulta altissima l’incidenza tumorale, soprattutto nei bambini, a causa dello spargimento di rifiuti tossici e degli scarichi di un’attività industriale totalmente fuori controllo.
Molto meno invece (sempre restando in Campania) si è parlato dell’Irpinia e in particolare della valle del Sabato e di quella solofrano-montorese, dove da ormai almeno un quarto di secolo fiumi e torrenti sono ridotti allo stato di rigagnoli marcescenti che emanano miasmi venefici e la popolazione “muore d’inquinamento” sperimentando un’incidenza di neoplasie e malattie respiratorie assolutamente fuori da ogni parametro. Ma anche dell’Isochimica di Avellino, dove per conto delle Ferrovie dello Stato, per decenni le carrozze ferroviarie sono state decoinbentate dall’amianto senza il rispetto di alcuna norma di sicurezza e in conseguenza di ciò decine di ex lavoratori sono già morti di mesotelioma e altri ne moriranno negli anni a venire o della IRM-Pescatore dove nel 2005 bruciarono migliaia di tonellate di ecoballe, senza che si sia mai provveduto a monitorare la salute della popolazione e bonificare il territorio.
Nella valle del Sabato, territorio che comprende una decina di comuni e circa 30.000 abitanti, in un’area di poco più di 3 chilometri quadrati sono concentrate almeno un centinaio d’industrie, siderurgiche, metallurgiche, metalmeccaniche, che occupano 5000 lavoratori. L’aria è irrespirabile, nel cielo ristagna perennemente una nebbiolina giallastra, la maggior parte dei terreni risultano pesantemente inquinati e gli abitanti muoiono per tumori e leucemie in percentuale molto più alta rispetto a quanto non accada nel resto della regione.
Nonostante tutto ciò le autorità che dovrebbero essere preposte a farlo non hanno mai provveduto a mettere in atto una seria analisi epidemiologica fra la popolazione, né ad analizzare lo stato di contaminazione dei terreni e dell’aria, rifiutandosi categoricamente di ammettere che esiste un problema e negando ogni correlazione fra l’altissima incidenza di neoplasie e il profondo degrado ambientale prodotto nella zona dall’industrializzazione selvaggia e dal mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza.
Di fronte a situazioni di questo genere che in Italia abbondano, basti pensare all’Ilva di Taranto, a Porto Marghera, al polo petrolchimico di Gela ed a quello di Augusta-Priolo, alla centrale Enel a carbone di Civitavecchia, alla raffineria Saras di Cagliari, alla “montagna” di rifiuti tossici di Porto Torres, al pcb prodotto dalla Caffaro di Brescia, alle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni e Cologno Monzese, e si potrebbe continuare ancora a lungo, sorge spontanea una domanda.
Nel compromesso fra lavoro e salute, noi uomini “moderni”, abbiamo davvero compreso appieno quale sia la linea di demarcazione oltre la quale non è assolutamente saggio spingersi, dal momento che non esiste posto di lavoro che possa venire barattato con una vita umana?