MARRACASH – "Status" (recensione)
Vengo da dove le sveglie suonano tutte la stessa condanna
Tra le leggende nessuno ha tenuto mai il mio standard
Qualcuno dice tre anni sono un ritardo
Eppure riesco ad anticiparvi ogni album
Marracash apre Status con un incipit chiarificatore – immerso com’era in quel limbo tra l’autoreferenzialità di proclamarsi king del rap e la dimostrazione di esserlo effettivamente, per quanto risaputo fosse il suo talento sopra la media. Il nuovo disco del rapper di Barona arriva tre anni dopo il precedente, tre anni più o meno incredibili (con un’accezione non sempre positiva) per il nostro rap, cui è però mancata la controparte tutta italiana che richiamasse l’attitude ed il carisma di alcuni dei nomi nuovi del rap game americano.
Marra ci ha provato: senza scadere nel manierismo più spicciolo, ha messo in piedi una label (con un roster non ancora super, dai) tecnicamente e visivamente a metà tra la TDE e la G.O.O.D. Music (riuscendoci?) e in questi tre anni ha mostrato quanto ancora i suoi soci dovessero faticare per raggiungere il suo livello – altissimo in “Genesi” ed “Untitled”, ad esempio. Ha creato una linea di abbigliamento e ormai pare parecchio a suo agio nelle apparizioni televisive. Insomma, nel processo che lo rendesse personaggio a tutto tondo mancava solo il pezzo più importante del puzzle: una grande prova musicale, ad oggi ancora l’aspetto artistico preminente. Col nuovo disco ci è riuscito? Sì, ma non senza qualche sbavatura.
“Status” ha il suo punto di forza nel costante bipolarismo tra personaggio-Marracash e persona-Fabio, un’alternanza di sensazioni e punti di vista che favorisce la versatilità del progetto e la funzionalità di un disco molto più lungo rispetto alla media. La tagliente “Vita da star”, la spocchia autoironica di “A volte esagero” e l’insostenibile materialismo di “Senza un posto nel mondo” ci raccontano un artista capace di convivere in una realtà che non gli appartiene approfittando delle conseguenze che il successo porta con sé. E le declinazioni positive del mondo in cui è emerso si esauriscono nel brano con Fibra: “Status” è continuamente permeato da una sensazione di amarezza e disillusione, che sfocia nelle urla liberatorie di “20 anni (Peso)” – in cui si veste da credibile leader di una giovane massa senza sussulti – e nell’illuminante “Vendetta”, un pezzo-manifesto che concentra in pochi minuti una verve sincera e multilaterale. C’è ampio spazio anche per Fabio e le persone perse di vista (“In Radio”), quelle di cui si avverte un grosso vuoto (“Il nostro tempo”), in quel baricentro italiano che è un misto asettico di occasioni e apparenza (“Sushi e cocaina”).
In Status c’è tanto, tutto, forse troppo. C’è il miglior flow che Marracash potesse proporre, a sciorinare i testi più complessi e stratificati mai partoriti. Dovizia citazionistica che pesca nel mare della tv, del cinema e della letteratura e che nella musica non si limita all’hip hop, ma riprende il miglior Beck e i Subsonica più ispirati. C’è un’interpretazione apparentemente fredda, ma ben orientata a definire un quadro generale e personale in fondo non proprio positivo. Ci sono tante varianti sonore figlie degli ultimi anni di contaminazioni – e che dunque anticipano poco, in quel senso. C’è un disco che tende a scemare, nella seconda parte meno intensa, e ci sono passaggi a vuoto completamente fuori-tracklist (“Di nascosto” con Guè fa cadere davvero la braccia). C’è talmente tanto da rendere imperfetto un disco che, con la cura maniacale che gli è stata sempre riconosciuta, sarebbe potuto essere ancora di più di quello che è – un disco che ha la credibilità e il talento di fungere da spartiacque.
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Nicola Pirozzi