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Marijuana Rulez, il nuovo libro di Luca Marola sulla legalizzazione americana

IMG1Torna Luca Marola, autore per Reality Book di vari libri legati sempre al tema dell’antiproibizionismo e della legalizzazione della cannabis, con il nuovo lavoro “Marijuana Rulez” che ci illustra il dibattito politico sulla cannabis avvenuto in America in seguito alle ultime campagne referendarie. Osservare e analizzare la realtà americana in tema cannabis potrebbe rivelarsi un ottimo spunto di riflessione e anche di partenza per un’analoga “rivoluzione verde” italiana.
Di seguito un capitolo del libro, in esclusiva per Dolce Vita, “Il nuovo movimento antiproibizionista americano: un mix tra interessi sociali ed interessi economici potenziali”.

Come tutte le campagne politiche, anche la campagna referendaria per la cannabis legale entra nella fase più delicata nelle ultime due settimane. Nella fase conclusiva si implementano gli sforzi, soprattutto comunicativi e quindi economici, per convincere gli indecisi prima del giorno del voto. Spot televisivi, cartellonistica stradale, pubblicità on line e sui social sono indispensabili per convincere gli indecisi, il 10% circa dell’elettorato che ancora non si è formato un’opinione o che ancora non ha deciso se votare oppure disertare le urne. Questo 10% decide il risultato e per convincerlo, servono molti soldi.

La principale differenza tra questa campagna referendaria e quelle del 2012 e 2014 grazie alle quali la cannabis divenne legale prima in Colorado e Washington e successivamente in Oregon, Alaska e Washington, DC sta nel fatto che un nuovo attore è entrato per la prima volta in campo: l’industria emergente della cannabis legale. I comitati referendari dei nove stati (California, Arizona, Nevada, Maine, Massachusetts per la cannabis non terapeutica e Florida, Arkansas, Montana e North Dakota per quella terapeutica) hanno raccolto complessivamente 38,7 milioni di dollari contro 11,9 milioni dei comitati che si oppongono al cambiamento legislativo e due terzi dei “grandi donatori” hanno interessi finanziari diretti nel business della cannabis.

Infatti, all’avanzare della cannabis legale, Stato dopo Stato, è venuta a crearsi una rete di aziende coinvolte, direttamente o indirettamente nel mercato della cannabis ed è la prima volta che le campagne politiche antiproibizioniste vengono sostenute finanziariamente anche da soggetti che hanno come obiettivo difendere od implementare i propri affari.

I primi finanziatori restano comunque le grandi associazioni antiproibizioniste da cui scaturiscono tutte o quasi le iniziative referendarie come la Drug Policy Alliance, la NORML ed il Marijuana Policy Project. In Nevada, ad esempio, almeno 39 dei 47 “grandi donatori” hanno interessi economici nell’espansione del mercato della cannabis legale. Hanno contribuito per un terzo di quanto raccolto dal comitato referendario. Tra questi compaiono una dozzina di dispensari terapeutici e cinque distributori di birra. I primi perché, almeno nei primi 18 mesi dall’entrata in vigore della legge, saranno l’unica rete di vendita prima che nascano i nuovi negozi autorizzati, i secondi perché ne saranno i distributori legali finché la nuova legge non entrerà a pieno regime.
Fenomeno analogo in Arizona: 26 dei 35 maggiori donatori otterrebbero un profitto diretto se si legalizzasse. Qui la campagna per il Sì alla cannabis legale ha raccolto 3,2 milioni di dollari. Anche in Massachusetts, 11 su 18 grandi donatori provengono dall’industria della cannabis.
Esattamente l’opposto di quanto avvenne in Colorado nel 2012 dove solo due dei 17 maggiori finanziatori provenivano dalle aziende legate alla cannabis donando comunque cifre basse: 42,000 dollari sui 3,3 milioni raccolti.
Stessa musica nello stato di Washington. Allora i grandi donatori erano i gruppi di attivisti o milionari filantropi come Phil Harvey, multimilionario che ha fatto fortuna producendo e vendendo sex toys, Rick Steves, famoso per le sue guide di viaggio e George Soros attraverso la Drug Policy Alliance.

Diversa è invece la situazione in Maine e California: qui è preponderante il sostegno di magnati e piccoli finanziatori. In Maine la proposta è guidata, oltre che dai gruppi antiproibizionisti, da una coalizione di piccole aziende che producono cannabis a scopo terapeutico e solo un donatore è direttamente interessato al business della cannabis mentre in California i supporter della cannabis legale hanno sfiorato la cifra record di 20 milioni di dollari grazie ai pesanti finanziamenti privati di Sean Parker, cofondatore di Napster e membro del team di sviluppo di Facebook (1,5 milioni di dollari donati), Weedmaps, l’azienda che ha sviluppato la applicazione per individuare i dispensari ed ordinare anche online (1 milione).
«La legalizzazione della marijuana, nel passato, dipendeva dai finanziamenti di pochi, eccentrici, anziani milionari bianchi», ha dichiarato recentemente Ellen Komp, direttore della sezione californiana della National Organization for the Reform of Marijuana Laws (NORML). «Stiamo iniziando ad osservare un aumento di maturità nel coinvolgimento dell’industria della cannabis nella sfera politica. E ne hanno, oltretutto, il diritto.»
Il fenomeno osservato è ancora marginale e molti attivisti si aspettano un maggior livello di coinvolgimento e contribuzione. Altri, invece, ne scorgono il potenziale pericolo ossia sporcare un movimento sociale e politico trasformandolo nello strumento in mano all’economia emergente della cannabis.

I finanziatori della cannabis legale provenienti dal cannabusiness, però, insistono nel rivendicare la bontà della scelta sostenendo le campagne pro cannabis adesso come prima di esser diventati imprenditori. Non dimentichiamo, infatti, come le campagne politiche per la legalizzazione abbiano origini ben più lontane rispetto all’emergente settore economico e come molti attuali protagonisti del mercato siano stati, negli anni, attivisti sociali. È una evoluzione, per molti di loro, dell’impegno politico, apportando, e qui sta la novità, capitali e mezzi maggiormente efficaci. Il profitto è solo un vantaggio secondario. Dall’altra parte della barricata si osserva un fenomeno analogo: soggetti economici con forti interessi nel mantenere lo status quo finanziano la campagna del No. E sono principalmente portatori di interesse delle società farmaceutiche, dei trasporti su gomma, dei produttori di birra (con l’unica eccezione in Nevada) e del gioco d’azzardo.

Alcuni grandi finanziatori del No nei referenda del 2014 hanno aperto il loro portafogli ancora una volta. È il caso di Sheldon Adelson, proprietario di casinò in Nevada che donò 5 milioni di dollari nel 2014 per opporsi al referendum sulla cannabis terapeutica in Florida e che a questa tornata ha speso 2 milioni per opporsi in Nevada ed 1 per contrastare la legalizzazione in Massachusetts. Altri casinò hanno seguito l’esempio, tra cui MGM Resorts International ed Atlantis Casino & Resort. Altri nuovi oppositori stanno emergendo, muovendosi tra i classici avversari come molte associazioni di polizia, aziende produttrici di alcolici e soft drinks e soggetti coinvolti nel settore delle comunità di recupero.
Ad esempio, e per la prima volta in modo ufficiale, la compagnia farmaceutica Insys Therapeutics Inc., azienda che sta lavorando alla produzione di cannabinoidi sintetici, ha donato 500,000 dollari al comitato che si oppone alla legalizzazione in Arizona. Sempre in Arizona la compagnia di trasporti e noleggio furgoni U-Haul, ha finanziato con 25,000 dollari il comitato che contrasta la legalizzazione. Non hanno giustificato né commentato il gesto.

È evidente la trasformazione in atto negli Stati Uniti del movimento pro cannabis che via via sta perdendo la sua connotazione prettamente politico-libertaria e di movimento con l’approdo nella contesa di un settore economico in grande potenziale espansione; solo col tempo si capirà se tale trasformazione sia positiva ed efficace oppure snaturi alla radice il movimento antiproibizionista.



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