Mangiare più sano può salvare il pianeta, non solo la nostra salute
Intervista ad Eliana Liotta che nel suo nuovo libro spiega tutti i vantaggi di un'alimentazione sostenibile
La nostra alimentazione, prevalentemente composta di cibo industrializzato proveniente dall’agricoltura, dalla pesca e dagli allevamenti intensivi offre al nostro organismo enormi quantità di calorie “vuote” a fronte di scarsissime proprietà nutrienti, intossica il nostro corpo provocando malattie che un tempo erano sconosciute, mentre ci offre l’illusione di gustare pranzi gustosi e accattivanti ingannando chimicamente i nostri sensi attraverso una lunghissima lista di additivi chimici. Non è semplice fare una stima di quante e quali conseguenze possano avere sul nostro organismo una tale ridda di sostanze qualora ingerite per anni e con continuità. Molte di loro provocano senza dubbio l’obesità, come dimostrato da un’ampia letteratura scientifica in materia. Altre inducono la distruzione della flora intestinale. Altre ancora favoriscono l’insorgere delle malattie cardiovascolari, dei tumori, del diabete, della demenza senile e dei disturbi della memoria, di alcune malattie autoimmuni e delle allergie alimentari.
Ma non è in gioco solamente la nostra salute, bensì anche quella del pianeta in cui viviamo, dal momento che secondo tutti gli studi più recenti la lotta contro il riscaldamento globale non può prescindere da un ripensamento radicale del nostro stile alimentare, responsabile dei mutamenti climatici nella stessa misura in cui lo sono i combustibili fossili.
Abbiamo cercato di approfondire questo argomento con l’aiuto di Eliana Liotta, autrice dell’interessante libro “Il cibo che ci salverà”, edito dalla Nave di Teseo, una pubblicazione che ha il merito di affrontare il tema sia dal punto di vista strettamente ecologico, sia da quello più specificatamente nutrizionale.
In quale misura il nostro sistema alimentare attuale incide sul cambiamento climatico? A questo riguardo esistono studi scientifici che dimostrino come la battaglia contro il riscaldamento globale non possa prescindere da un profondo ripensamento dell’intera catena alimentare dalla quale deriva il cibo che imbandisce la nostra tavola?
Per contenere nei prossimi anni il riscaldamento globale entro un grado e mezzo o due al di sopra dei livelli preindustriali, non è più sufficiente puntare solo sull’energia pulita e sulla riduzione dei combustibili fossili nelle industrie e nei trasporti, ma è indispensabile una food revolution: lo ha detto chiaro e tondo l’ONU nei suoi report. Le emissioni di gas serra provengono per un terzo dal sistema alimentare, da quel che mangiamo e da come lo produciamo. Ecco perché non basta più occuparsi di petrolio e carbone, ma serve una rivoluzione delle forchette. Lo ha ribadito anche una ricerca pubblicata su Science a novembre del 2020: potremo contenere l’aumento delle temperature solo se nei paesi industrializzati si adotteranno diete più ricche di vegetali, riducendo anche lo spreco.
Questo non vuol dire necessariamente abolire le bistecche. Dalle ricerche sulla nutrizione e da quelle sul clima non emergono elementi tali da stabilire che si debbano eliminare gli allevamenti dalla faccia della terra o che un po’ di carne faccia male alla salute. Fra l’altro, il bestiame dà lavoro a oltre un miliardo di persone, tra zootecnia e commercio. E bisogna pensare che in alcuni paesi, per le persone a basso reddito con diete limitate, carne, uova e latte offrono una fonte vitale di sussistenza.
È evidente però che in Occidente servono politiche coraggiose sugli allevamenti intensivi, accompagnate da scelte individuali consapevoli. Le quantità di gas serra che derivano dal bestiame sono pari più o meno alle emissioni di tutti i camion, le auto, i velivoli e le navi del mondo messi insieme (stime Fao).
L’allevamento di mucche, pecore e capre è il responsabile principale delle emissioni di metano, gas prodotto durante la digestione dei ruminanti ed eruttato dagli animali, con un effetto serra superiore all’anidride carbonica prodotta dai trasporti e dalle industrie. E poi spesso si devastano immense aree di foreste per lasciare spazio agli allevamenti intensivi, con emissione di ulteriori gas climalteranti.

Esiste un’alternativa a questo genere di alimentazione, che al tempo stesso ci aiuti a preservare la nostra salute e risulti più rispettosa nei confronti degli animali e dell’ambiente che ci circonda?
C’è una straordinaria coincidenza tra quello che fa bene a noi e quello che fa bene al pianeta. Come hanno concluso gli esperti di clima e nutrizione riuniti dalla rivista The Lancet, se la popolazione dei paesi industrializzati riuscisse a raddoppiare entro il 2050 i consumi di vegetali e dimezzasse quelli di zuccheri, farine raffinate e carni rosse e trasformate, si frenerebbe il riscaldamento globale e si eviterebbero almeno 11 milioni e mezzo di decessi prematuri all’anno dovuti ad abitudini alimentari malsane.
Dovremmo virare su una dieta in cui abbondano ingredienti più naturali, a cominciare da legumi, verdura, frutta.
Fino alla metà del secolo scorso l’uomo generalmente mangiava cibo genuino, poi progressivamente ci siamo assuefatti al cibo industriale, condito sempre più pesantemente attraverso la chimica. Come mangeremo fra 30 anni e quale sarà l’impatto della nostra alimentazione sull’ecosistema?
Il cibo che ci salverà è anche un cibo innovativo, come spiego nel mio libro. Da una parte si svilupperanno colture come quelle idroponiche, che riducono il consumo di suolo e azzerano l’uso di pesticidi. Dall’altra si lavorerà in maniera sempre più intensa alla cosiddetta agricoltura cellulare, cioè alla carne ottenuta in laboratorio a partire da cellule staminali prelevate in maniera non cruenta da animali e pesci.