Mai sentito parlare di turismo psichedelico?
Da “Le lettere dello Yagé”, apprendiamo che William Burroughs fu probabilmente il primo a provare l’ayahuasca con l’unica motivazione di sperimentare artisticamente questa antica pozione. Dallo scambio epistolare con Allen Ginsberg, infatti, emerge chiara questa sua spinta radicalmente aliena rispetto allo stile dei report precedenti guidati dal bisogno di catalogare, classificare, controllare e colonizzare.
Gran parte degli scritti antecedenti le lettere pubblicate nel 1963 classificano l’uso tradizionale di questi vegetali come “selvaggio”, “primitivo”, in grado di “far perdere il senno”: fino alla prima metà del Novecento, l’ayahuasca, così come gli psichedelici in generale, è tendenzialmente considerata una “pozione infernale”; “infernale” perché indebolisce il potere del “senno”, dello “spirito”, del pensiero sulla materia, sul corpo e su tutte le forze sconosciute che innervano il tessuto della nostra realtà (illuminanti eccezioni a parte, come i lavori dell’etnobotanico Richard Evans Schultes o dei poeti André Michaux e Antonin Artaud).
La perdita di controllo fu tradizionalmente relegata a uno stato d’evasione inutile e sospetto, potenzialmente distruttivo o al massimo “ricreativo”. Questa stessa demonizzazione degli stati di ebbrezza, secondo l’interpretazione dell’attivista eco-femminista Starhawk, ha portato alla persecuzione delle streghe ed è stata una mossa decisiva per espropriare le classi popolari del loro sapere, trasferendo maggior potere di controllo alla nascente classe capitalista e patriarcale.
Nel XX secolo la febbre del progresso portò alla diffusione in Europa di un bianco e raffinato elisir d’importazione, estratto da foglie in grado di rendere più sopportabile la fatica e di attivare il processo in alcuni rituali iniziatici: la cocaina, diffusa fra le classi alte già dai primi del Novecento. Un doping chimico, oramai essenziale per boostare e soddisfare i bisogni della nostra città globale e del nostro paese, in cui l’utilizzo è ipocritamente proibito ma comunque sdoganato.
Un utilizzo che a Taita J., medico tradizionale delle foreste del Putumayo, in Colombia, con una sessantennale esperienza nell’uso terapeutico dello Yagé, suscita un profondo risentimento. L’ho incontrato nei boschi senesi dove era arrivato con il fine di iniziare allo Yagé un gruppo di psicologi, filosofi e psichiatri italiani, sperando di prevenirne l’uso scorretto o perlomeno di diffondere il suo punto di vista: quello di chi ha lavorato e sperimentato con il decotto sacro più di dodici anni prima di essere “incoronato” ufficialmente Taita (traducibile come “medico tradizionale dello Yagé”). Il nuovo timore di Taita J. è dovuto alla rinascita d’interesse mainstream per l’ayahuasca quale strumento di guarigione o di ricerca di sé. Un interesse che stimola viaggi alla ricerca dei servizi sciamanici “autentici” che sedicenti cercatori spirituali occidentali sono pronti a pagare profumatamente. Perché? Felicità, benessere, illuminazione, curiosità, noia.
Un possibile stereotipo del potenziale cercatore spirituale post-moderno, un personaggio affascinante e in evoluzione, è il seguente: iniziata/o alla Mindfulness per gestire lo stress di una vita lavorativa vuota e insoddisfacente, praticante di Hatha Yoga, interessata/o al risveglio della Kundalini, si avventura in India, passa per l’Indonesia, prova un acido in vacanza con gli amici, quindi decide di iniziarsi in Brasile, in Perù o in Colombia all’esperienza dello yagé.
Questo cittadino globalizzato alla frenetica ricerca di esperienze di contatto con “l’altro” è alla base di un fenomeno di volgarizzazione e sfruttamento economico, rilevato da diverse ricerche antropologiche. Tuttavia, come rileva lo psichiatra riluttante Piero Cipriano su carmillaonline.com, riconoscere e denunciare questo turismo psichedelico in Amazzonia non può comportare solo il suo rifiuto. La lucidità su quanto accade infatti non può limitare il bisogno di comunicare con culture diverse e di ricostruire un sapere di cui siamo stati – tutti- espropriati.
Ma qual è la differenza fra un cercatore e un turista spirituale?
«Se i turisti» scrive Calasso ne “L’Innominabile Attuale”, «vengono osservati con qualche imbarazzo e un accenno di riprovazione, è l’umanità che guarda se stessa e sospetta di aver perduto qualcosa. Non sa bene che cosa, ma sa che non sarà recuperabile». Il turista insomma è intrappolato nel suo sguardo superficiale sull’esperienza cangiante del viaggio, in una realtà virtuale da cui nemmeno l’ayahuasca può garantirgli di uscire. Eppure Hester Lynch Thrale scrisse: «L’utilità del viaggiare è di regolare l’immaginazione per mezzo della realtà e invece di pensare come le cose possono essere, vederle come sono».
Ecco perché esiste ancora una differenza fra il turista e il cercatore, due personaggi che non si possono solo condannare, ma in cui possiamo ritrovare parti di noi in costante mutazione. Se il turista consuma ciò che è già stato prodotto, predeterminato e limitato – il tempo libero del lavoratore neo-capitalista – il cercatore tenta con tutte le sue forze di spogliarsi dei suoi costrutti condizionanti per riscoprire l’iridescente volto del reale, e facendo questo è forse già al di là della farsa. Lasciamo che questi due personaggi ci guidino prima del nostro prossimo trip, affinché sia un viaggio, un volo, chimico o fisico, magico o triviale, orizzontale o verticale, “bad”, “challenging” o “mystical”, ma pur sempre psichedelico e quindi rivelatore.
a cura di Tiziano Canello
Laureato in Scienze del Corpo e della Mente all’Università di Torino, collabora con il network Psy*Co*Re ed è parte del collettivo antiproibizionista Marijtuana