L’Italia ripudia la guerra, ma cresce la spesa militare
Da anni siamo abituati a tagli trasversali in ogni settore, dalla sanità, ai servizi pubblici, alle pensioni, tagli che non tengono conto delle reali necessità dei cittadini, basti pensare che secondo l’Eurostat l’Italia è il Paese che conta, in valori assoluti, più poveri in Europa.
Mentre i nostri concittadini arrancano ad arrivare a fine mese, a chiusura della 17° legislatura, scavando nel bilancio finale, troveremo delle spese consistenti sotto la voce dei fondi destinati al Ministero della Difesa per gli armamenti, a conferma di quanto abbia fatto il Governo Italiano negli ultimi 5 anni. Un settore in continua crescita che non conosce austerità come sottolineano i rapporti della campagna “Sbilanciamoci” dell’istituto Mil€x, osservatorio sulle spese militari italiane.
ITALIA 11° NELLA CLASSIFICA MONDIALE PER LE SPESE MILITARI. Secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) il Bel Paese si trova quasi sulla soglia della “Top Ten” della classifica mondiale per spese militari, addirittura davanti a stati considerati bellicosi come Turchia (16°), Israele (17°) ed Iran (24°).
FORZE ARMATE CON PIÙ UFFICIALI CHE SOLDATI. La consistenza odierna del personale militare risulta essere ancora sovradimensionata e internamente squilibrata: ci sono ancora oltre 170mila militari e ci sono ancora più comandanti che comandati (87mila tra ufficiali e sottufficiali, 83mila tra graduati e truppa). Questa situazione di squilibrio, data la forte sperequazione retributiva tra gradi, determina una spesa molto elevata: circa 6,5 miliardi di soli stipendi. Le retribuzioni di ufficiali e sottufficiali ammontano complessivamente a quasi il doppio di quelle di graduati e truppa, mentre dovrebbero pesare quasi lo stesso o poco di più.
A questo si aggiungono altri privilegi propri dei militari, in particolare degli ufficiali, sia per quanto riguarda il trattamento retributivo che quello pensionistico. Uno dei principali privilegi retributivi, oltre a varie indennità di servizio, è l’omogeneizzazione stipendiale (introdotta nel 2002); essa prevede che gli ufficiali con 13 anni di servizio percepiscono lo stipendio del colonnello, pur non essendolo, e con 23 anni quello di generale di brigata, pur non essendolo. Con 15 anni di servizio percepiscono l’intero trattamento economico del colonnello, e con 25 anni quello di generale di brigata.
Se la lentezza con cui procede la riduzione di personale costituisce un problema, assai più grave, e oneroso per la collettività, è il fatto che tale riduzione è solo apparente per quanto riguarda le alte gerarchie militari. La Difesa è infatti ricorsa a uno stratagemma che le consente di rispettare, sulla carta, gli obiettivi annuali di riduzione del personale previsti dalla Riforma Di Paola, garantendo però agli alti ufficiali in esubero uno scivolo d’uscita grazie al quale questi vengono esonerati dal lavoro continuando però a percepire lo stipendio per i successivi 7 anni.
COLONIALISMO 2.0. Un capitolo a parte lo merita invece la questione delle spese militari all’estero, calcolare in modo preciso ed esaustivo il costo finanziario di una campagna militare all’estero è molto difficile, dato che ai costi ufficiali “diretti” si aggiungono costi “indiretti” che non sono riportati nei documenti pubblici.
Ci riferiamo a costi di tipo sistemico (acquisizione nuovi mezzi da combattimento e armamenti, aggiornamento sistemi d’arma in relazioni alle esigenze, munizioni, addestramento specifico del personale e costi sanitari delle cure per feriti e mutilati) che l’apparato della Difesa e altre amministrazioni pubbliche devono sostenere per esigenze direttamente connesse alle operazioni in corso, ma che non figurano come tali e che quindi non sono computabili.
Da pochi anni le forze armate italiane si sono dotate, senza destare troppo clamore, della prima base militare nazionale fuori dai confini nazionali dopo la conclusione del periodo coloniale. Costruita dai genieri del battaglione Trasimeno del 6° reggimento genio pionieri di Roma, la base tricolore si trova nel deserto del piccolo Stato africano di Gibuti (ex Somalia francese) incastrato tra Somalia, Etiopia ed Eritrea, affacciato sullo strategico stretto di Bab el Mandeb (tra Mar Rosso e Oceano Indiano) e sullo Yemen. La base italiana — intitolata “agli italiani caduti in Africa orientale e al Tenente Amedeo Guillet” (eroe militare del colonialismo fascista) — è sita in località Nagad e può acquartierare fino a 300 soldati: attualmente ospita una task force interforze di 135 unità impiegate per il funzionamento della base, il completamento dei lavori infrastrutturali e la sicurezza della struttura
SPESE ASSURDE PER I CAPPELLANI MILITARI. Nonostante l’Italia sia una repubblica laica e aconfessionale dove non vige una religione ufficiale di Stato, i successivi concordati con il Vaticano prevedono un servizio di assistenza spirituale alle forze armate affidato a sacerdoti cattolici in qualità di cappellani militari. Il loro status, normato dalla legge italiana nel 1961 (governo Fanfani, Andreotti Ministro della Difesa), è quello di generali e ufficiali superiori con i relativi trattamenti economici a carico dello Stato Italiano.
I cappellani militari, che nel 2015 erano 205 e costavano 10,4 milioni di euro l’anno, oggi sono ancora 197 e costano 9,8 milioni l’anno. Di questi, 172 sono a carico del Ministero della Difesa (quelli inseriti negli organici di Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri e Ministero) e 25 a carico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (quelli inseriti negli organici della Guardia di Finanza).
Uno sperpero di risorse pubbliche insomma che cozza in maniera paradossale alcuni articoli fondamentali della nostra costituzione, in un contesto di incertezza politica ed internazionale, mentre da est soffiano incessanti venti di guerra, da ovest arrivano gli aquiloni o per meglio dire i nuovi F-35 che cavalcano l’onda; da poco infatti è stato annunciato in pompa magna l’arrivo del primo F-35 tricolore.
Peccato che il nuovo cacciabombardiere, pagato la bellezza di 150 milioni di euro, così com’è non serva praticamente a nulla: vola e basta. A meno che non spendiamo altre decine di milioni per aggiornare il suo computer di bordo. Lo stesso discorso vale per tutti gli F-35 pre-serie comprati dall’Italia: dieci già consegnati e un paio in arrivo.
Mentre l’opinione pubblica viene inondata di informazioni fuorvianti e molto lontane dal reale interesse dei cittadini, noi poniamo una lente d’ingrandimento su una corsa agli armamenti che rasenta quella di quasi un secolo fa e che sappiamo tutti dove ci ha portato.
Non ci rimane che chiederci cosa farà il prossimo governo al riguardo, sempre che ve ne sia uno in tempi utili.
Fonti: Milex Osservatorio sulle spese militari italiane, Movimento NonViolento, rete italiana per il disarmo.