Lion D: ganja, reggae e good vibes
Nato a Londra nel 1982, da madre italiana e padre nigeriano, David Andrew Ferri, in arte Lion D ci ha raccontato i retroscena del legame profondo che storicamente unisce la canapa e il genere musicale di cui è tra i massimi esponenti in Italia. Cannabis for Future è il suo nuovo brano, prodotto da Leo Bizzarri, e inno dell’omonimo movimento: «In passato ho scritto pezzi sulla canapa, ma mai come Cannabis for Future – ci ha raccontato -. Il progetto CFF è bellissimo da tutti i punti di vista e la canapa è il futuro! Chi la conosce sa già quante potenzialità ha, ma c’è ancora bisogno di sfondare porte e sensibilizzare su questo argomento, attorno al quale c’è molta disinformazione. È una battaglia di cui anche la musica si fa portavoce».
L’inno di CFF non poteva che essere Reggae.
Certo! Il consumo di cannabis è uno dei capisaldi della musica che faccio, non inteso come volto al mero relax, ma perché nella filosofia e nello stile di vita Rastafari c’è un significato profondo dell’uso dell’erba, che ha a che fare con la spiritualità (riferimenti alla canapa si trovano nell’Antico Testamento), con il mettersi in contatto con certi stati di coscienza o, come artista, per incentivare l’ispirazione. Questo per dare un’idea, ma lo spettro è molto più ampio e lo ritroviamo anche in CFF, che sostiene non solo l’uso ricreativo della pianta, ma anche industriale, medico, come carburante e molto altro. Questo pezzo ne incarna lo spirito.
E ci riporta al legame originario tra Reggae e ganja tramite la cultura Rasta?
Assolutamente. Quello è l’anello di congiunzione, ciò che mi ha permesso di essere autentico nel comunicare il messaggio. Sono stato varie volte in Giamaica e mi considero un Rasta, ho un approccio non radicale e dogmatico, ma il mio stile di vita abbraccia i precetti Rastafari, dove questa pianta è vista in maniera completamente diversa dal resto delle culture mainstream. Lo stile di vita dei Rasta si oppone al modus operandi del sistema in cui viviamo, che non ha rispettato la natura e l’essere umano, ma soprattutto per i Rasta non c’è separazione tra uomo e natura, quindi è assolutamente importante rimanere in armonia con l’ambiente, rispettarlo, trattarlo bene e in questo contesto rientra il discorso di CFF.
Negli anni ’70 il Reggae e la cultura Rasta, a cui dava voce, hanno sconfinato dalla Giamaica. Quanto ciò ha contribuito alla diffusione del consumo di cannabis nel mondo?
Tantissimo. Penso che quello che ha contribuito di più a questa espansione sia stato Bob Marley. Con la sua ascesa a superstar internazionale, l’uso della ganja e tutti gli altri aspetti della cultura Rasta sono arrivati ai quattro angoli del Pianeta. In quanti avrebbero visitato la Giamaica se non ci fosse stato lui? Diciamo che CFF deve un po’ di riconoscenza anche a Bob Marley, che nella sua breve vita, ha rivoltato il mondo come un calzino, anche se gli sono stati messi molti bastoni tra le ruote. Purtroppo, poi, sono nati molti luoghi comuni attorno al legame tra musica Reggae e consumo di cannabis.
Che non può ridursi a mera questione di vibes.
No! Il Reggae è una musica ribelle e anche il suo forte legame con la ganja deriva da questo. Bob Marley diceva che il Reggae è una musica che viene dal basso, è la musica dei sufferer e soprattutto chi ha poco ha quell’atteggiamento di ribellione consapevole, per cui sa benissimo quali sono i punti cardine della sua esistenza e vive secondo quelli. È un rimanere fedeli a se stessi, che per il sistema rappresenta un atto di ribellione.
Da Legalize It di Peter Tosh, a Easy Skanking di Bob Marley, Ganja Smuggling di Eek-a-Mouse, fino a Free Up The Weed di Lee Scratch Perry i capolavori sul tema non si contano. Molti sono pezzi di denuncia contro la repressione del consumo di ganja da parte della polizia giamaicana. La battaglia continua?
Non si è mai fermata. In Giamaica e non solo c’è ancora una miriade di artisti che contribuisce alla causa, gente come Culture con Legalization, Marlon Asher con Ganja Farmer, Damian Marley ft. Stephen Marley con Medication, Sizzla con Smoke Marijuana o Jah Mason con Mi Chalwa. Anche in Italia sono nati bei pezzi sul tema, tipo L’erba della giovinezza di Brusco, Erba Libera dei Sud Sound System e Brucio la ganja di Raina. Tra i grandissimi Peter Tosh cantava Legalize It, quello era il suo sogno e se fosse ancora qui, forse, sarebbe un po’ soddisfatto del suo contributo, perché qualcosa piano piano sta cambiando, anche se c’è ancora tanto bisogno di lottare e sensibilizzare.
“Blaze Up, High, Puff My Sensi” anche tu hai cantato le lodi della ganja.
Perché la amo! Dal punto di vista ricreativo e creativo, anche se dopo anni che compio la mia missione con la musica, sono arrivato a scrivere pure senza l’uso di cannabis, che comunque è sempre stata per me di grandissima ispirazione. Devo dire che sono un old school lover, amo la OG Kush, ma di base I love them all, sativa, indica… I’m in love with them! Qualche volta mi è capitato di usare la CBD, ma preferisco the real one.
Con la CBD, se non altro, si è fatto un primo passo.
Sì, ma c’è ancora tanta diffidenza e superficialità. Però, ogni cosa va come deve andare. Ecco, questo è un altro punto in comune tra cannabis e Reggae, il costruire le cose nel tempo, in a natural progression. Sì, c’è chi rimane folgorato, ma la maggior parte delle persone che iniziano ad ascoltare Reggae se ne innamora lentamente. Così a livello di coltivazione: la pianta richiede tempo e nel tempo cresce, come la tua consapevolezza.
Diversamente va per il Reggae in Italia, se ne fa tanto e di eccellente qualità, ma il genere è ancora di nicchia e un grande festival come il Rototom si è dovuto spostare a Benicàssim, in Spagna. Sembra che proibizionismo e confino del Reggae in una nicchia vadano di pari passo qui da noi. Tu come la vedi?
C’è stato l’intento di criminalizzare le due cose, però sono cascati male, perché quelli del Reggae e della cannabis hanno le spalle larghe. È da decenni che siamo attaccati dal resto del mondo, ma non molliamo. Quella del Rototom, però, è stata una batosta, orribile vedere tutto quello che è successo, anche prima del trasferimento nel 2010: gli articoli di giornale, le denunce, le discriminazioni! In Spagna hanno trovato un humus diverso, gli amministratori locali hanno capito l’importanza di un festival così, che è sempre stato contenitore di tante cose – musica, incontri, conferenze, anche sulla cannabis – e di anno in anno è cresciuto, tanto che oggi ci arriva gente da tutto il mondo. Se fosse rimasto qui sarebbe stata una grande possibilità, anche per CFF.
Sono tutte occasioni perse ed è davvero tempo di cambiare.
Noi non molliamo. Don’t give up though you face the hardest. Plant the seed, then you’ll reap the harvest!