L’importanza della luce nelle coltivazioni idroponiche
All’inizio di questa mini-rubrica è stato affrontato il problema dei limiti della divulgazione “cannabica” che tende sempre a generalizzare i concetti legati alla coltivazione.
Negli anni alcuni di questi concetti molto generici si sono sedimentati tanto da diventare quasi dei dogmi di coltivazione che i grower amatoriali non hanno il tempo di mettere alla prova, preferendo accettarli per comodità; tra tutti gli aspetti della coltivazione probabilmente la luce e le sue caratteristiche rappresentano l’aspetto del growing in cui la tendenza a generalizzare è stata più evidente negli anni ed ha avuto più ripercussione nel mercato di articoli per il growing indoor e nel cannabusiness su larga scala.
Questo è stato possibile anche grazie al fatto che, nonostante la sua fondamentale importanza, la luce è forse l’aspetto meno tangibile e valutabile immediatamente da un grower. Anche con una sufficiente preparazione teorica, solo l’esperienza può permetterci di capire come influisce sulle piante poste in un determinato sistema di coltivazione.
LUCE
Nella coltivazione idroponica indoor l’elemento più importante e determinante, dopo l’acqua, è senz’altro il tipo di illuminazione e le sue caratteristiche; queste solitamente vengono identificate con la potenza impiegata (in watt), il tipo di lampade (CFL, LED, HPS…) e il colore della luce (espresso in kelvin per lo spettro generale o in nanometri nel caso dei LED).
I produttori molte volte aggiungono anche informazioni più specifiche per approfondire meglio queste caratteristiche, ad esempio indicando oltre ai watt e al colore della luce anche i lumen (misurati spesso a 30 cm dal bulbo) e la percentuale PAR (Photosynthetically Active Radiation – radiazione fotosinteticamente attiva).
Il valore PAR (misurato in W/m² ma indicato quasi sempre in %) rappresenta la quantità di energia effettivamente disponibile per la fotosintesi; a livello teorico funziona così: la clorofilla sfrutta pienamente solo determinate frequenze dello spettro elettromagnetico della luce riflettendo quelle che non assorbe (ad esempio solo il 41% della luce solare è PAR), questo è il motivo per cui le piante appaiono di colore verde e le lampade a luce verde generalmente attivano poco o per nulla la fotosintesi nelle piante.
Basandosi sulle tabelle PAR i produttori di lampade a scarica (soprattutto MH ed HPS) hanno creato lampade con spettri che si concentrano il più possibile nelle frequenze che interagiscono maggiormente con la clorofilla, entro i limiti permessi da quel tipo di tecnologia che fornisce comunque sempre uno spettro abbastanza ampio. I costruttori di LED hanno potuto spingersi oltre dato che questa tecnologia permette di limitare la luce prodotta ad alcune frequenze molto specifiche, principalmente nella fascia del rosso e del blu creando per sintesi additiva lo spettro magenta comunemente associato alla luce dei pannelli LED.
Partendo da un po’ di teoria applicata e facendo un paio di calcoli, sia i coltivatori che i produttori di lampade sono arrivati alla conclusione che coltivare con LED rossi e blu avrebbe ottimizzato moltissimo il growing indoor, con un aumento notevole dei grammi raccolti per watt impiegato. Purtroppo, come abbiamo osservato anche altre volte, la teoria si scontra spesso con una realtà più complessa in cui ci sono da considerare molti più fattori.
Oltre ai fattori prettamente tecnici, come angolo e potenza dei LED, o economici, come efficienza e costo pannelli, esiste anche un fattore botanico spesso trascurato: il calcolo PAR viene stabilito rispetto alla clorofilla a e b, ma la cannabis possiede anche altri pigmenti come le antocianine (responsabile dei toni dal rosa al blu), i carotenoidi (responsabili delle colorazioni giallo-rossastre) e l’antoxantina (tono incolore o bianco fino al giallo).
Dunque come influenza una luce PAR 100% un fenotipo red o blue? La ricerca e la tecnologia avanzano, però le osservazioni per il momento ci portano a ritenere più performanti i LED COB a spettro completo rispetto ai pannelli LED a spettro solamente magenta, anche se la teoria suggerirebbe il contrario. E più in generale comunque le lampade a scarica oggi continuano ad offrire la maggiore produttività per watt, anche se molto probabilmente i LED di prossima generazione riusciranno a superarle.
Un altro concetto importante che un coltivatore semi-pro dovrebbe interiorizzare è quello di “qualità” della luce; molti confondono concetti come penetrazione, concentrazione, distanza ed omogeneità ma si tratta di caratteristiche diverse tra loro che spesso portano ad errori.
L’errore più comune tra i coltivatori con poca esperienza è senz’altro quello di cercare di mantenere sempre i riflettori e le lampade il più vicino possibile alle piante, dimenticando che anche se la temperatura lo permette la luce è comunque energia che interagisce con i processi biochimici delle piante e va amministrata secondo le esigenze della pianta stessa.
Un consiglio generale è di preferire sempre l’omogeneità della luce all’interno di tutta la growroom piuttosto che creare spot di luce troppo concentrati: più si avvicina un riflettore alla cima delle piante, soprattutto in sistemi ScrOG e SOG che creano uno schermo di foglie, e più si concentra la luce creando tre zone molto nette composte da una zona esterna dove la luce è insufficiente, una limitata zona con condizioni ottimali e una zona centrale con eccesso di luce. Le foglie e i fiori centrali soffriranno di troppa foto-respirazione per l’eccesso di luce, arrivando a fenomeni di albinismo per poter riflettere più luce, mentre i rami periferici ne soffriranno la carenza. Meglio sacrificare quindi qualche lumen facendo arrivare la luce dappertutto, piuttosto che iniziare una guerra anti-producente con le temperature e la ventilazione della growbox per tenere i riflettori vicinissimi alle piante.
VPD
All’inizio di questa serie di riflessioni, iniziate due numeri fa, scrivendo di temperatura ed umidità nelle serre di coltivazione si è accennato ad un concetto lasciato poi in sospeso: il VPD, ovvero il Vapour Pressure Deficit.
Si tratta di un concetto importantissimo in ogni tipo di coltivazione indoor perché è determinante per il metabolismo e lo stato di salute delle piante. Cercando di semplificare è il valore della differenza di pressione nel vapore atmosferico e la massima quantità che ne può contenere l’aria prima di saturarsi ed iniziare a condensare l’acqua in pioggia o in sottili strati d’acqua; viene indicato in kilopascal (kPa) e determina il tasso di traspirazione della pianta e a sua volta è determinato dal rapporto tra temperatura ed umidità relativa.
La traspirazione fogliare rappresenta per le piante il meccanismo principale per muovere acqua dalle radici fino alle foglie e poi eliminarla con l’evaporazione attraverso gli stomi, il tutto sfruttando la differenza di pressione tra l’interno della pianta e l’atmosfera. Questo processo fondamentale permette, oltre alla circolazione di elementi in tutti i tessuti, la perdita di calore attraverso lo scambio termico con l’esterno.
Riguardo questo aspetto l’errore più comune è quello di considerare come due elementi indipendenti e separati la temperatura e l’umidità della growroom, pensando a valori assoluti ideali e cercando compromessi tra l’una e l’altra, mentre invece è il rapporto tra le due a rappresentare un valore unico determinante.
A maggior valore VPD corrisponde una maggiore evaporazione mentre a un valore minore corrisponde una minore traspirazione; solitamente si considera come valore medio ottimale 0,85 kPa ma per compensare alcune situazioni particolari di temperatura o umidità difficilmente controllabili è possibile cambiare a proprio favore l’altro parametro. Se per esempio si coltiva in un ambiente particolarmente umido può risultare inutile l’utilizzo di deumidificatori per cercare di abbassare i valori di UR, piuttosto sarebbe utile aumentare la temperatura nella zona di coltivazione aumentando il VPD per non bloccare la traspirazione; allo stesso modo nel caso di temperature troppo alte potrebbe essere sufficiente aumentare l’umidità ambientale per evitare un’eccessiva evaporazione.
Nei sistemi idroponici con irrigazioni molto frequenti, o addirittura con l’apparato radicale immerso in acqua come nel caso dei sistemi DWC, la conoscenza di questo fattore può essere sfruttata per accelerare il metabolismo della pianta e per dissipare maggiormente il calore, permettendo di coltivare anche durante i mesi più caldi dell’anno senza dover interrompere il ciclo di produzione.
a cura di Madman
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