L’hip hop nelle serie TV
Sta per calare il sipario sul 2016, un altro anno in cui il rap è stato padrone delle classifiche e degli ascolti di gran parte degli italiani. Rispetto ai precedenti in questo sono stati evidenti il cambio generazionale dei suoi protagonisti e, inevitabilmente, l’ulteriore abbassamento dell’età media dei suoi fan: una schiera di ragazzi con relativo background e con poco da spartire con i pionieri ha quasi completamente preso la scena, impostando sound, stili e visioni differenti confermando, riuscendovi o meno, che un altro modo di pensare e fare il rap sia possibile.
Da qualche anno l’Hip Hop ha superato le quaranta primavere, dunque è inevitabile che nel tempo abbia mutato pelle e, a seconda delle generazioni, si sia adattato alla musica più in voga o, come accade negli ultimi tempi, sia arrivato ad influenzarla notevolmente. È lecito che il suono, le tematiche ed il flow di oggi rispecchino solo in parte le impostazioni che nacquero – verosimilmente – nel 1973 col primo block party ideato da Dj Kool Herc. Una cultura ed un genere giovani, se rapportati a tanti altri, ma dalla storia abbastanza matura e complessa da essere raccontata. Continuano infatti a farlo brani, jam, dischi e libri, ma, mai come in questo ultimo periodo, anche documentari e serie tv. Negli Stati Uniti così come in Italia.
Ambientato nel Bronx del 1977, The Get Down è stata la serie tv regina di Netflix. Costata ben 10 milioni di dollari a puntata, è diretta da Baz Luhrmann, regista di Romeo + Juliet ed Il Grande Gatsby. Nelle sei puntate finora pubblicate (le prossime nel 2017) si evince la maestosa scenografia e un discreto lavoro storiografico, coadiuvato da Grandmaster Flash e Nas, tra i produttori, nonché Afrikaa Bambaataa e dello stesso Kool Herc. Senza molte pretese documentaristiche, romanza invece la storia di alcuni giovani che dal Bronx mirano a raggiungere New York a colpi di rime e di street art: l’Hip Hop come mezzo di rivalsa in un quartiere complicato, in una serie che si è rivelata un mezzo flop in quanto a visualizzazioni, ma che sa inquadrare bene un periodo storico, quello della nascita del genere e dei suoi valori fondanti.
Rimanendo in tema Netflix, l’altra grande produzione della Tv online si chiama “Luke Cage”, un personaggio della Marvel con poteri particolari: un uomo nero e indistruttibile, con la pelle a prova di sparo. Cosa lo lega all’Hip Hop? Ogni puntata ha il titolo di una canzone dei Gang Starr, l’iconico duo formato da Dj Premier e dal compianto Guru, così da ricreare in frame una sorta di «concept album»; è ambientata ad Harlem, patria di alcuni tra i migliori rapper della storia, ed ha la colonna sonora prodotta da Ali Shaheed Muhammed degli A Tribe Called Quest e da Adrian Younge, che negli anni ha collaborato con Jay-Z e Ghostface Killah. Tra citazioni e camei (come quello di Method Man), la serie ha un impatto sociale devastante, di cui l’Hip Hop americano si è spesso reso portavoce negli ultimi mesi.
Nel 2015 è invece andata in onda, per Fox Tv, “Empire”, una delle serie più viste negli Stati Uniti, la cui colonna sonora è ad opera di un big come Timbaland. Il titolo suggerisce che il canovaccio della fiction è incentrato su una famiglia proprietaria di una casa discografica prettamente Hip Hop, con un impero milionario che sarà ereditato da uno dei tre figli: tra sotterfugi e implicazioni, la storia risulta popolare ed edulcorata, buona per un pubblico massiccio anche non amante del genere. Decisamente più street è il mood di “Power”, la non memorabile serie prodotta esecutivamente e musicalmente da 50 Cent: il rapper newyorkese è anche protagonista della storia, che si snoda repentina tra spaccio di droga, locali di copertura, giri loschi e notevoli colpi di scena.
Negli States non sembrano volersi fermare qui: sono infatti in arrivo altre serie tv a tema, a partire da quella ispirata dal mito di Notorious B.I.G.. In Italia subiamo ancora un notevole distacco qualitativo e quantitativo da questo punto di vista e non sembra essere nemmeno nelle aspettative un prodotto che parli approfonditamente di Hip Hop. Negli scorsi anni, però, alcuni rapper hanno fatto da comparsa o hanno prodotto brani per le colonne sonore de “L’Ispettore Coliandro” (parliamo di Yared dei Camelz, Inoki e Co’Sang), il telefilm ideato dai Manetti Bros da sempre attenti al rap italiano. C’è stato molto rap anche in “Gomorra”, forse la serie più riuscita dalle nostre parti, nel brano di coda di Lucariello e Ntò, poi nella colonna sonora con brani di Enzo Dong (anche in veste di comparsa) e di Luchè. Per ora bisogna accontentarsi di lungometraggi rap-oriented, come i pionieristici “Zora la Vampira” e “Torino Boys” – sempre a firma Manetti –, di “Senza Filtro” con protagonisti gli Articolo31 e in ultimo di “Zeta”, al cinema qualche mese fa. Molto più corposa e in divenire la produzione di documentari sull’Hip Hop italiano, ulteriore segnale di quanto venga trovato costruttivo raccontare di una storia bellissima come quella della nascita di questa cultura.