Quella strana erba che mi hanno venduto a Secondigliano…
In quegli anni avevo un negozio a Pescara e ogni sabato mattina partivo presto per tornare a casa ad Avellino lasciando l’attività in mano ai miei collaboratori fino al martedì mattina. Quel sabato ero in viaggio col mio figlio piccolo al tempo appena maggiorenne.
Mamma fermiamoci a Secondigliano e prendiamo qualche pacchetto di erba mi dice lui. Oddio, io non ero mai stata in quella zona di Napoli, la proposta mi disturbava un po’, ma un paio di cannette a casa dopo una settimana di lavoro mi avrebbero rilassato. Dunque usciamo a Casoria e il “piccolo” mi indica con facilità la strada per arrivare sul luogo della vendita.
Nel quartiere il figliolo mi fa notare una sentinella ad ogni angolo, in genere ragazzini in attesa di incarichi più importanti, pronti a dare l’allarme in vista di controlli da parte delle forze dell’ordine.
Arrivati sul posto ci mettiamo in fila, ultimi di un serpentone di auto che, col motore acceso, attendevano il proprio turno.
Mamma dammi i soldi e sii pronta a ripartire in fretta. Col cuore in gola, agitata e desiderosa di fuggire al più presto, gli allungo cinquanta euro. Il luogo dello spaccio era un portone la cui area era stata blindata con lastre metalliche fra le quali spiccava una finestrella protetta da sbarre di ferro. Un tipo era dietro la finestra e un altro faceva da spola fra la stessa e l’auto dell’acquirente.
“Cinque pacchetti” ordina Dario, allungandogli i soldi e, dopo pochi secondi, ci viene lanciato nel finestrino aperto dell’auto quanto avevamo ordinato: precisione Svizzera in terra di Camorra.
Ma proprio nel momento di mollare la frizione e partire a razzo, una signora con un involucro in mano avvolto in uno strofinaccio mi si para davanti. Signo’, signo’ v’aggia chiedere nu piacere, portate sta pasta co’ ragù a o figlio mio, chillo lavora tutto il giorno e si dimentica pure di mangiare, sta o secondo angolo a sinistra. Core de mamma, povero figlio digiuno pensai con rabbia prendendo l’involucro e consegnandolo alla sentinella quattordicenne che sedeva un paio di isolati più avanti.
Arrivati a casa apriamo i pacchetti. L’erba era bella abbondante e molto luccicante, ma al primo tiro notammo che dal joint schizzavano scintille scoppiettanti.
È polvere di vetro mi dice Dario, molto più informato di me.
Prendo una piccola infiorescenza e la metto in bocca; la sensazione era quella di masticare sabbia. Allora era vero quello che avevo sentito dire in giro; casi di silicosi in ragazzi giovanissimi.
Buttai tutto nel gabinetto e mi decisi per l’autoproduzione.
Era da tempo che mio figlio cercava di convincermi, ma io mi ero sempre rifiutata, anche perché dalle nostre parti non era difficile trovare erba locale a prezzi modici. Da un po’ però era diventato più difficile, c’erano stati sequestri importanti in Alta Irpinia e le due piante che mettevo da anni a dimora sul terrazzo fra rose e gelsomini non potevano più bastare.
Avremmo avuto bisogno di una serra per l’indoor e subito ci mettemmo a ragionare sui costi dell’attrezzatura, sui consumi elettrici, sul luogo dell’impianto (una cabina-armadio) e a fantasticare sulla qualità e la quantità.
Non un pensiero però sulle eventuali conseguenze che mi avrebbero, di lì a pochi mesi, rovinato la vita. Ora appoggio l’idea del collega di sventura Giuseppe Nicosia, pronta a credere di nuovo nell’autoproduzione. Speriamo bene…