Leggenda
Era già nell’aria da un po’ di tempo, e purtroppo la scorsa settimana è arrivata la conferma: questa, sarà l’ultima stagione da professionista di Kobe Bryant. Un brutto colpo per il mondo della palla a spicchi, perchè non solo non vedremo più uno dei migliori interpreti di basket calcare il parquet, ma perchè il ritiro del 24 gialloviola segna anche la fine di un’era.
Giocatore amato da tutti perchè ha vinto da solo le partite e allo stesso tempo un giocatore odiato da tutti perchè ha perso da solo le partite, ha sempre preteso l’ultimo tiro allo scadere dei 24 secondi, il cosiddetto buzzer beater e quindi anche questa volta, per non fargli alcun dispetto lasceremo che sia lui ad avere l’ultima parola.
O meglio, lasceremo parlare la sua incredibile carriera accompagnata da una colonna sonora che abbiamo selezionato per rappresentare le fasi più importanti del suo straordinario percorso nella pallacanestro.
“With the 13th pick…”
Il 23 Maggio del 1996, nella palestra della Lower Marion High School, addobbata per il ballo di fine anno come in un film della Walt Disney, Kobe “Bean” Bryant from Philly Sound si presentò alla festa lasciando poche ore prima la sua ragazza storica per Brandy Norwood, la nota stella dell’R&B americano. Perché? Perché da lì a poco, il figlio del talentuoso Jo “JellyBean” Bryant, si sarebbe poi dichiarato eleggibile per entrare nel mondo cestistico dei Pro.
A 12 anni giocava nelle Cantine Riunite di coach Cantarella in Italia e, fino a 16 non riuscì mai a battere il padre 1vs1, però, nei suoi anni alla high school non solo vinse, ma distrusse con umiliazione ogni avversario o record che gli si pose davanti. Jerry West, che all’epoca era il GM dei Los Angeles Lakers, rimase impressionato da lui che derise Michael Cooper (ex miglior difensore della NBA) come Zorro con il sergente Garcia in un workout pre-draft lottery.
Innamorato come pochi, West, lo portò nella città degli angeli scambiando Vlade Divac dagli Charlotte Hornets con la chiamata numero 13, ma per firmare quel contratto occorre la firma del padre, perché Kobe è così giovane che per legge non può farlo. Il talento però ad occhio e croce è molto più che maturo, anche perché in Italia aveva studiato bene i fondamentali del gioco.
Three-Peat
Io ho sempre amato Kobe Bryant, sin da quando ero un ragazzino fino ad oggi, che sono -almeno anagraficamente- una persona adulta, con tutti i suoi pregi e difetti.
Pregi: il 24 ha sempre rappresentato l’amore incondizionato per la pallacanestro, un esempio di puro agonismo, un’etica del lavoro maniacale che l’ha portato ad essere la cosa più vicina a Michael Jordan, che a detta di molti, è stato il giocatore più forte di tutti i tempi.
Difetti: un talento tanto grande quanto il suo ego, smisurato ed ingombrante, perchè se avesse accettato di rimanere il Robin di Shaquille O’neal, con grande probabilità i titoli sul suo palmarès oggi sarebbero molti di più, ma chi vuole essere la spalla di Batman? Tanto vale essere Alfred Pennyworth, chissà che stipendio gli dava Bruce Wayne.
Nell’era del Three-Peat (1999–2002) l’8 gialloviola -a quei tempi indossava quel numero- è stato il miglior secondo violino che si potesse chiedere, partendo da una media ai playoff di 21.1 punti, 4.5 rimbalzi e 4.4 assist del primo anno fino ad arrivare ai 29.4 punti, 7.3 rimbalzi e 6.1 assist dell’ultimo; lui e Shaq crearono una dinastia e dominarono completamente il parquet negli anni in cui giocarono insieme, una coppia quasi illegale.
Dall’8 al 24
Se il peso dell’anima umana si percepisse nel momento in cui quest’ultima lasci il corpo di un individuo, allora, l’anima di un cestista con i suoi momenti di splendore, si riconoscerebbe attraverso la propria maglia, con il proprio numero dietro le spalle senza seguire un ordine logico.
Il “Soul By The Pound (Thump Mix)” alla Common Sense di Kobe si manifestò con la canotta numero 24 nel suo anno da freshman ma fu cambiata poco dopo con la 33, come tributo al padre e alle sue escursioni al ferro sul parquet della John Bartram High School.
L’anima di Kobe però, è sempre in una “Self-Reflection” perenne alla Pete Philly, ossia in una continua ricerca riflessiva della perfezione e dell’Who I Am come Ro Spit insieme a Buff 1 e Phil Ade nell’omonimo brano. Infatti alla fine dell’ultimo giorno dell’ADIDAS ABCD Camp da Rookie ai Lakers esclamò: “I can’t get with that” alla Jay-Z, perché per la prima di campionato non poté indossare l’anima tessile del liceo, la 33 rappresentava già quella del campione Kareem Abdul Jabbar. Quindi, per portare l’“Hip 2 Da Game” sulla sua pelle come fece all’epoca Lord Finesse nel ’95, toccò inventarsi qualcosa…e Kobe sommando le cifre del numero 143 che aveva sulla divisa, assegnatagli durante il Training Camp, ottenne 8 che è anche il numero del suo idolo adolescenziale Mike D’Antoni che ammirò nel periodo italiano.
Il ritorno alla 24 dopo 10 stagioni (dopo il three-peat, 3 titoli) è un “Act Like You Know” sotto le Tre P dei Platinum Pied Pippers, tralasciando il riferimento leggendario delle 24 ore di allenamento per ossessione. Bisognava ritrovare l’amore per il gioco, espresso una volta anche dal compaesano Dj Jazzy Jeff, indossando qualcosa della Jersey che gli fece conoscere l’amore per la prima volta.
Ossessione Jordan
Credo che più o meno, la vita di Kobe Bryant sia andata più o meno così:
Scuole elementari: –“Cosa vorresti diventare da grande?” –“Michael Jordan”.
Scuole medie: –“Cosa vorresti fare da grande?” –“Michael Jordan”.
High School: –“Che college vorresti frequentare?” –“Michael Jordan”.
In NBA: –“Adesso che sei un giocatore dei Los Angeles Lakers, come ti senti?” –“Michael Jordan”.
Esagero? Forse sì. O forse no. Nello sport è normale ispirarsi ai giocatori che ci hanno preceduto, ma il n°24 gialloviola ha portato all’estremo questo concetto; è come se avesse avuto davanti a sé la sagoma di Michael Jordan, e per tutta la sua vita abbia cercato di ricalcarne i movimenti, l’atteggiamento e addirittura le esultanze.
Domanda per risvegliare un po’ di hating assopito in voi: se MJ è il n°1 di sempre, rende Bryant il 2° di sempre essendosi avvicinato più di chiunque altro a lui?
E sono 5
“Limits like fears are often just an illusion”. Con in testa la frase di MJ appena pronunciata nel 2010, Kobe, iniziò ad affrontare i limiti del suo corpo con vari infortuni: anca, piede, ginocchio, dito rotto della mano di tiro e le paure che cigliavano sul sistema nervoso come il suono di Finale nel brano “Issues”.
Se il difficile lo affascina, l’impossibile lo incanta, e lo seduce al punto tale da portare il suo estro sul campo ad un livello altissimo, ed ovviamente in trash talk spiegava quanto potesse andare alto come Rhymefest ed i Little Brother nel pezzo “How High” infatti prima di natale segnò sei volte allo scadere il tiro per vincere la partita.
La frattura al dito lo costringe a modificare il suo Shooting move e grazie a Chuck “The Rifleman” Person con Craig Hodges e la sua voglia di migliorarsi lo rende più preciso segnando ad ogni partita quasi il doppio della stagione precedente con l’aggiunta di: “Winning takes precedence over all. There’s no gray area. No almosts.”
La resa sui quattro quarti ad ogni game come Pete Rock e DoitAll in “Surrender” non esiste e, tutto il mondo si accorge che è l’unico giocatore in attività ad aver assimilato il Jordan’s Think ossia: avere il controllo mentale sugli avversari, sui compagni e su quello che accade nell’istante di gioco.
Il suono della palla che scende accarezzando a ripetizione la retina suona come le prime note di “Mathematics” by Mos Def insieme alla ritmica del brano “Sweet” di Common Sense ed è “No Comparison” alla Buckshot & 9th Wonder fino alle Finals contro i Boston Celtics.
Nella “City of Champions” o “Tittletown”, fate voi, il Black Mamba con il numero 24 non è il benvenuto, infatti “Hate My Face” di Supastition risuona fino a gara 7 quando, il limite del cielo alla Biggie Smalls oramai, non lo si vede più e la paura di fallire sparisce sugli ultimi possessi in “All Eyez On Me” di 2Pac con le giocate da MVP delle Finals alla Big L.
Dopo il fischio finale insegue il pallone gridando “FIVE, FIVE”… e si!… sono “5 on it” mixata con “The Champ” di Ghostface Killah chiudendo con l’immagini dei suo sacrifici in palestra, con la prima sessione di tiro alle 5 del mattino su “13th floor (Growing Old)” degli OutKast dal disco ATliens, perché uno così non è umano ed uno così passa solo una volta nella vita, figuriamoci in uno sport come il basket.
Addio
Kobe Bryant è stato molto più di un incredibile spirito competitivo, molto più di un realizzatore, molto più di un giocatore meraviglioso, molto più di un uomo franchigia, la stella dei Los Angeles Lakers è stata una bandiera vera e propria, perchè per vent’anni ha indossato la stessa maglia, vincendo e perdendo con i colori gialloviola cuciti addosso.
Purtroppo gli anni passano, ed è arrivato il tempo dei saluti, e come nella commovente lettera in cui ha annunciato il suo ritiro “Dear Basketball”, anche noi ora siamo pronti a lasciarti andare, ma non prima di averti visto segnare un’ultima volta allo scadere, quindi palla tra le tue mani, 5, 4, 3, 2, 1…ciao Kobe, grazie di tutto.
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Francesco Theak & Stefano Nappa