Contro-informazione

Lavorare la metà e guadagnare il doppio: si può fare!

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La Foxconn è l’azienda cinese che produce componenti elettronici per Apple, Microsoft e molte altre multinazionali del settore tecnologico. Recentemente ha ridotto il numero dei suoi operai da 110mila a 50mila, non perché colpita dalla crisi, ma semplicemente per sostituire il loro lavoro con quello dei robot. Lo stesso sta avvenendo con meno clamore in tante ditte più piccole, da tempo, anche in Italia.

La sharing economy, l’intelligenza artificiale e l’internet delle cose sono i tre fattori di un cambiamento epocale in atto, potenzialmente accomunabile alla rivoluzione industriale nelle conseguenze economiche e sociali. Si stima che nei prossimi 10-20 anni il 50% delle professioni scompariranno o saranno automatizzate. Una rivoluzione che potrebbe cambiare definitivamente i concetti di lavoro e capitalismo come oggi li conosciamo.

In un mondo che funziona interpreteremmo questa notizia come una grandiosa rivoluzione. Le macchine potranno lavorare al posto nostro e se per fare il lavoro di 100 persone da domani ne basteranno 50 vorrà dire che tutti potremo lavorare la metà del tempo. Liberando così buona parte della giornata per le cose che contano davvero nella vita.

Per lungo tempo si è creduto che questa sarebbe stata la conseguenza della meccanicizzazione del lavoro. Nel 1930 John Keynes, probabilmente il più influente economista del secolo scorso, scriveva che nell’arco di cento anni la ricchezza disponibile sarebbe quadruplicata e allo stesso tempo la settimana lavorativa si sarebbe progressivamente ridotta fino ad arrivare 15 ore, consentendo così alle persone di avere tempo per le passioni, il tempo libero e la salute.

Al 2030 manca ormai poco e se è vero che le previsioni keynesiane si sono ampiamente avverate per quanto riguarda la ricchezza complessiva degli stati occidentali, già oggi di cinque volte superiore rispetto al 1930, lo stesso non si può certo dire riguardo all’orario di lavoro.

Per alcuni anni il mondo sembrò effettivamente andare nella direzione prevista da Keynes, nel 1932 il Senato Usa approvò una legge che riduceva l’orario di lavoro a 30 ore settimanali, una norma che venne giudicata sostenibile economicamente alla luce della maggiore produttività garantita dalla macchinazione del lavoro e pensata insieme per ridurre la disoccupazione e aumentare i consumi. La norma ebbe però vita breve sotto la pressione delle lobbies industriali e il nuovo presidente Roosevelt la annullò l’anno seguente.

Nuovamente negli anni ’90 il mondo parve essere vicino a una riduzione dell’orario di lavoro. Alcuni Paesi europei, Francia in testa, sperimentarono la settimana lavorativa di 35 ore. Poi il nuovo millennio, la competizione globale, le delocalizzazioni, la crisi finanziaria: al giorno d’oggi si fanno leggi che deregolamentano le ore di straordinario, parlare di ridurre l’orario di lavoro è considerato da pazzi. Il risultato è che lavoriamo più o meno quanto i nostri nonni, ma con livelli di stress maggiori a causa della diffusione dei lavori cognitivi.

Oggi la pressione e il lavoro eccessivo stanno diventando un vero status symbol. Spinti dalla retorica iper-produttiva che avanza e dal sogno che solo rimboccandosi le maniche ci si può realizzare aspirando a tutti gli agi che la pubblicità ci propone come bisogni, avere del tempo libero è diventato quasi uno stigma sociale, una cosa da falliti, non la scelta consapevole di chi decide di anteporre la vita al lavoro.

The hand reaches out from big heap of crumpled papers

Si è inclini a credere che chi lavora meno passi il tempo oziando davanti alla tv o al computer. Ma le statistiche ci dicono che è proprio nelle nazioni dove si lavora troppo, come negli Stati Uniti, che le persone passano più tempo davanti agli schermi: 4 ore al giorno, praticamente nove anni filati nel corso della vita. Lavorare troppo prosciuga energie fisiche e mentali, e spinge a fare attività come guardare la tv, che ci permettono di rimanere completamente passivi, mentre il flusso delle immagini, tra una serie e talk show, ci mostra pubblicità incalzanti su nuovi prodotti che dobbiamo assolutamente riuscire ad avere. Lavorando di più per poterceli permettere, naturalmente.

Un circolo vizioso che non è neppure funzionale al buon andamento del sistema. È provato come proprio lo stress e gli orari di lavoro eccessivi siano causa di tanti disastri, da quello nucleare di Chernobyl, a molti incidenti ferroviari, automobilistici o aerei. Proprio nelle ultime ore di lavoro e in quelle straordinarie secondo uno studio della Cgil si concentrano più della metà degli incidenti sul lavoro che avvengono in Italia, causando tragedie individuali e spese per il servizio sanitario.

Lavorare a lungo non giova neppure alla crescita economica delle nazioni. Può sembrare un controsenso ma è così, anche se da anni cercano di convincerci che bisogna diventare più produttivi, accettare gli straordinari, deregolamentare ogni norma sul lavoro e tenere aperti gli esercizi commerciali anche la domenica. La verità è che i paesi dove si lavora di più sono anche quelli dove la disuguaglianza economica è più accentuata e dove il Pil non cresce. Non a caso in Europa la nazione dove si lavora di più è la Grecia (42 ore medie a settimana) seguita da Portogallo e Spagna, mentre quelle dove si lavora meno sono Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania.

Eppure gli strumenti per uscire da questo sistema ingiusto e inefficace, se non per i pochi che dallo sfruttamento della manodopera si arricchiscono, scaricandone sulla società i costi in termini sociali e sanitari, ci sarebbero. Come abbiamo visto la ricchezza che un’ora di lavoro genera è enormemente superiore a 100 anni fa grazie alla tecnologia. Basterebbe semplicemente distribuire in modo corretto questa ricchezza per permettere a tutti di avere un lavoro e far sì che esso non occupi la gran parte della vita di un essere umano. Quello che manca è un cambio di paradigma, che può avvenire solo con una nuova consapevolezza collettiva che porti a un cambiamento politico.

Per prima cosa il lavoro non è solo il lavoro salariato, cioè quello destinato alla paga e al mercato, anche se hanno fatto di tutto per convincerci del contrario. Se è vero che il lavoro salariato scarseggia (e, per fortuna, scarseggerà sempre di più) di lavori da fare ce ne sono in abbondanza: edifici da rimettere a posto, argini di fiumi da rinforzare, città da ripulire e buche da sistemare, bambini svantaggiati da sostenere e anziani da assistere. Le risorse per fare tutto questo ci sono, basta toglierle dalle tasche dell’1% che si arricchisce costringendo gli altri alla fatica per la sopravvivenza.

E ci sono anche per approvare un vero reddito di cittadinanza. Se le macchine lavorano per noi perché non dobbiamo godere della ricchezza che producono? Anche qui la retorica che milioni di persone pagate a prescindere si perderebbero nell’ozio non regge. È fumo negli occhi per difendere un sistema razionalmente indifendibile. Diversi esperimenti condotti nel passato (negli Usa ma anche nel nord Europa) hanno evidenziato come le persone assegnatarie di un reddito incondizionato utilizzavano il tempo e la serenità derivante dal non avere l’assillo del reddito per cominciare progetti che nella maggioranza dei casi si rivelavano fruttuosi in poco tempo, che fossero imprese private o iniziative di pubblica utilità.

A Göteborg, la seconda città più grande della Svezia, da due anni si sta sperimentando la settimana lavorativa di 30 ore. Un esperimento approvato da diversi economisti, che sostengono che diminuendo l’orario lavorativo i lavoratori non diminuiranno la loro produttività in quanto è provato che il rendimento di ogni lavoratore decresce ora dopo ora. Inoltre si stima che avere più ore libere aiuterà a fare girare l’economia e a migliorare la salute dei lavoratori, diminuendo così la spesa sanitaria. Un esperimento seguito con interesse dal governo nazionale pronto, se i risultati saranno confortanti, a trasformarlo in legge. Non è la svolta definitiva nel senso che auspichiamo, ma già cominciare da qui sarebbe un passo avanti.

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